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Amour

Immagine tratta da AmourUn po' critica e analisi dell'individualismo e dell'indipendenza nella società contemporanea, un po' racconto di una storia di amore in età avanzata e del far i conti con la malattia e la morte, Amour è un cambio di rotta per Michael Haneke

Dietro a molte delle storie narrate al cinema da Michael Haneke c’è un mistero, un altrove intuito anche se non trattato, spesso incasellabile nelle sfere del cinematografico (del suo linguaggio); il nascosto (Niente da nascondere), l’appena accennato (Il tempo dei lupi), il celato con sapienza (Il nastro bianco), il filo conduttore sotterraneo (Storie), e questa dimensione sottotraccia è probabilmente quel che rende affascinante e ansiogeno il suo cinema.
Amour
è differente. Probabilmente, perché sai già come andrà a finire, vuoi perché parte delle carte sul finale sono già in tavola nell’incipit, vuoi perché la vita è piuttosto prevedibile: si conclude sempre con la morte. E allora Amour non è più un film di attesa dell’ignoto, di contorno all’ignoto, di cavie sottoposte a esperimenti socio-cinematografici loro malgrado (e il bello di Haneke è pure che queste cavie possono essere sia gli spettatori che i suoi protagonisti, perché chi recita nei suoi soggetti non sta solo davanti alla macchina da presa, ma anche seduto in poltrona di fronte lo schermo), ma un film su quel che avviene nella zona di transizione umana tra l’esserci nel pieno delle proprie facoltà e il non esserci più. Il punto di vista è quello di una coppia anziana e pariginamente borghese, e la sostanza di questo intermezzo tra la vita piena e la morte è il loro legame; quello che nel dizionario è rintracciato alla voce 'amore': l’insieme di convenzioni, sensi di colpa, moti dell’animo, impulsi cerebro-epidermici, impegni di condivisione famigliare ed economica, paralleli intellettuali che compongono le relazioni tra le persone.
Naturalmente, come ci si potrebbe aspettare da uno come Haneke, la visione dell'amore del film non è quella romantica, ma quella di una scelta razionale che, come riporta la formula, sta inscritta in quel 'in salute e in malattia, finché morte non vi separi' che sigilla il matrimonio, una scelta di anti-solitudine, quasi uno scudo un po' borghese, un po' affettato, un po' parigino. La coppia formata da Georges ed Eva è quella di due anziani signori della borghesia intellettuale parigina con tutta probabilità reduci sessantottini, velatamente liberal e tutti teatro, musica e figli sparsi per l'Europa, il cui tran tran viene sconvolto quando la donna si trova colpita da una paralisi: si va avanti di flash in flash via via entrando nella vita tranquilla, corretta e abbastanza noiosa dei due protagonisti, e delle loro solitudini scoperte.
La doppia polarità della storia si snoda tra il racconto di un rapporto d'amore (si veda sopra per l'accezione del termine), tenero e senile allo stesso tempo, e una sotterranea rappresentazione criptocritica (à la Haneke) dell'individualismo (o l'autoindipendenza) di una certa società contemporanea, in cui il mito del bastare a se stessi cade in frantumi quando l'autonomia garantita dalla buona salute viene meno, e attraverso questo duplice canale la storia parla a un pubblico di tutte le età, ma l'impatto cinematografico del tutto è un poco attenuato (rispetto ad altre prove, graffianti, dello stesso regista austriaco) per via appunto della mancanza di quel quid di mistero che stuzzichi la curiosità intellettuale del suo pubblico (della sua cavia), oltre che per l'amalgama non appieno riuscito delle scene più off e oniriche con il flusso principale del racconto.

A pesare è anche quell'impressione che ti prende subito e mai ti molla che l'ambientazione francese e parigina, l'utilizzo delle grandi star a riposo del cinema transalpino (Jean Louis-Trintignant ed Emmanuelle Riva), la tematica della vecchiaia e del confronto con la malattia e la morte, il realismo appiccicoso e claustrofobico (ma anche un po' noiosetto) facciano tanto film da festival; da Festival di Cannes, per essere più precisi. E se è pur vero che un po' di paraculismo lo si permette a tutti e a maggior ragione lo si permette ai più grandi, è anche vero che un film che non ci prende dentro come altre (numerose) volte era capitato con quelli di Haneke, vale una menzione e una nota di (piccolo) biasimo. Certo, fossero tutti come Amour, i film paraculi, si andrebbe tutti al cinema più ottimisti e anche più esigenti, ma onestà intellettuale vuole che anche le Palme d'Oro possano essere inquinate dai loro lati deboli, oltre che elevate agli onori per quelli di indiscussa potenza (che in Amour esistono, sia chiaro). Così è la vita.

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