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White Shadow - Recensione (Venezia 70 - Settimana della Critica)

Noaz Deshe riesce a trasformare quella che sulla carta sembrava una pelosa iniziativa umanitario-pubblicitaria da uomini bianchi in trasferta in un sorprendente racconto di giornaliere atrocità, appiccicandosi alle spalle di Alias, ragazzino albino che cresce in un mondo dove quelli come lui rischiano ogni giorno di diventare vittime delle pratiche di stregoni che usano arti e organi per propiziare guadagni e fortune

Se non sapete che in Tanzania (e in altri Paesi centroafricani, raccontano le cronache degli ultimi anni) le persone albine non vivono solo una diversità sul piano del colore della pelle, ma anche la disgrazia di poter finire vittime di squadroni della morte improvvisati che coi loro machete fanno raccolta di arti e organi per l’uso e il consumo di riti propiziatori di fortuna e ricchezza amministrati da stregoni con pochi scrupoli, beh… ora lo sapete. A metterci di fronte a questi fatti, a raccontarci che si tratta di avvenimenti di cronaca della realtà di quell’Africa, è White Shadow: primo film del regista di origini israeliane Noaz Deshe, una gamba a Berlino e l’altra a Los Angeles, premiato come Miglior Opera Prima tra le selezioni ufficiali e non dell’appena trascorsa 70° Mostra di Venezia.
Per porre l’accento sul tema, Deshe sceglie di non usare l’approccio del documentario, già percorso da altri su questo stesso tema, ma di mettere in scena una storia di finzione che segue il sentiero di crescita di Alias (Hamisi Bazili), ragazzino di pelle bianca che, dopo aver assistito alla macellazione del padre da parte di trafficanti di carni di albino, nel villaggio di campagna dove viveva, viene spedito in città dalla madre (che è così convinta che Alias correrà meno pericoli per via della sua diversità), a vivere con lo zio che non vedeva da anni. Là, tra le code di automobili a cui Alias vende cianfrusaglie ai semafori e lo squallore della periferia fatta di violenza quotidiana per mettere insieme il pranzo con la cena, il nostro farà la conoscenza con la cugina Antoniette e con un altro bimbo albino, Salum: la scoperta dell’innamoramento e dell’amicizia si incrociano, nella storia di Alias, con i debiti di gioco dello zio e le prevedibili difficoltà a farsi accettare dagli altri per via della sua condizione che non può nascondere.
Figlio di una produzione congiunta tra Germania, Italia e Tanzania, sponsorizzato da nomi come nientemeno che Eva Riccobono e Ryan Gosling (e chissene?, vi direte), circondato da un’aura di film 'di denuncia sociale', con la puzza di operazione umanitario-commerciale che si avverte sin da lontano, White Shadow parte su binari che dire storti è un blando eufemismo. Eppure, quando partono le immagini sullo schermo, la storia ci mette poco a smentire le cattive (pre)impressioni, e quello che ne esce è tutt’altro che quanto ti aspetti: un film molto violento, a volte quasi difficile da sostenere, sebbene sia una violenza più intuita che mostrata quella trattata, sorretto da un piglio quasi documentaristico, da una dedizione alla materia e al sonno della ragione che la sottintende impressionante, ma anche capace di interpolare qualche sprazzo di vitalità in mezzo alle tenebre, qualche guizzo di ironia, qualche barlume di speranza. Il ritmo diseguale rischia di stancare, soprattutto nella parte centrale che sembra per qualche scena perdersi e perdere di vista bersagli e destinatari di quelle immagini di atrocità che all'inizio ancorano allo schermo, e il finale non è forse all’altezza della durezza delle due ore che lo precedono, ma la scommessa è una di quelle vinte contro ogni pronostico.

Il vincitore principale ha un nome solo, quello del regista Noaz Deshe, che è stato capace di evitare lo scontato, con un argomento che vibra di echi locali ma anche universali: uno da tenere d’occhio per il futuro, insomma.

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