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Kano (Far East Film Festival 2014) - Recensione

La storia vera della squadra di baseball che, dalla periferia, andrà a lottare nel più nobile dei campionati. Un film misurato in cui regista e spettatore diventano complici di un gioco alla commozione in cui cullarsi

Dopo il sorprendente vincitore del 16esimo Far East Film Festival - l’inaspettato pur coerente The Eternal Zero - ecco un altro film pressoché identico e filosoficamente sovrapponibile: Kano di Umin Boya. Cinema popolare, commovente quanto basta, piacevole quanto basta, interessante quanto basta, divertente quanto basta. Un film per bene. Tutto misurato, in modo da piacere praticamente a chiunque. Nessun eccesso, nessuno che possa parlarne né troppo bene né troppo male, un piccolo gioiello di equilibrio furbo che rende la visione molto piacevole (obbligatoria ad un festival di cinema popolare come quello di Udine), se si sta al gioco, ovviamente.
E’ la vera storia, romanzata, della squadra di baseball multi-etnica della periferica e sconosciutissima Scuola Agraria Kagi che, abituata a non vincere mai nemmeno una partita nei suoi anni di agonismo, cambia allenatore (uno scarto del nobile campionato Koshien) ed inizia un percorso di impegno e crescita virtuosa che, come nelle più belle favole, non potrà che portare al successo.
Quando ci si appresta a vedere un film con una trama classica (il poveraccio che parte da zero ed alla fine vince tutti) come quella di questo Kano si deve fare una scelta: starsene fuori della sala serenamente o entrare ben sapendo quello che si sta per vedere, accettando le regole del gioco in un clima di astensione del giudizio. E godere.
La figura dell’allenatore e del primo lanciatore sono di spicco e creano quei pochi angoli acuti in uno svolgimento altrimenti lineare, prevedibile e piatto. Il primo - pieno di rimorsi e con una gran voglia di rivalsa personale - da aggressivo e gelido evolve fino ad entrare in risonanza coi ragazzi, fino a creare un clima di fratellanza e di rispetto che porrà le basi del successo. Il secondo, esilissimo ma dal carattere d’acciaio (uno che si allena tutta la notte fino allo sfinimento) commuove quando nel momento più importante della sua vita si infortuna ma non demorde tra le lacrime di un pubblico - sia in sala che allo stadio - oramai conquistato ed a difese abbassate.
Un Holly e Benji del baseball, con una colonna sonora molesta ed invadente, tutta fatta di archi e di accordi in tonalità minore per rinforzare quel lavorio a tavolino in pre-produzione, quel progettino ricalcato da mille pellicole (vedi The Eternal Zero), che va a toccare tutti, nessuno escluso, i tasti che servono per commuovere ed entusiasmare. Il film è questa farsa. E lo è bellissimamente. Il giochetto del regista, mai celato, è talmente esplicito ed amorevole da creare un feeling con lo spettatore, che diventa complice di questo atto criminoso verso la settima arte. Un atto criminoso sempre esistito, che si ama e odia alla stessa maniera, e per il quale non si può che citare Leopardi con il suo “e il naufragar m'è dolce in questo mare”.

Per un film così misurato è un dovere civile usare un giudizio eccessivo.
Consigliato.

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