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The Living and the Dead - Recensione

Un dramma che si traveste da horror per indagare le conseguenze del dolore. Un film crudo che trova nuovi spazi originali anche grazie ai suoi errori. La pellicola della svolta per il britannico Simon Rumley, il nuovo punto di riferimento per le leve inglesi di genere, un regista che brilla sopra una massa omologata a retaggi superati

Un nobile solitario, vecchio e mezzo decaduto vive in un'enorme reggia scrostata. Con lui, la moglie in stadio terminale ed il figlio psicotico/ossessivo: un ragazzo che sopporta ed ama, ma che non può stimare. Un giorno deve partire per affari e, all'arrivo dell'infermiera, il figlio si barrica in casa, perché vuole bene alla mamma, vuole accudirla e vuole che suo padre sia fiero di lui.
Quello che vede, però, è ben diverso da ciò che succede davvero in quella casa di sofferenza, sangue, suppliche e vomito.
The Living and the Dead è un film pieno di difetti.
Avanza testardo e ciondolante alla maniera degli autistici, senza esclusione di ingenuità. Scalcia come il trillo del telefono che interrompe ad intervalli irregolari la linea confusa che dirige le gesta del protagonista: un ritardato interpretato con più di qualche sbavatura, troppo caricato, una specie di Gian Burrasca fuori dal suo abituale contesto di macchietta comica. Il film, pur senza malizia, ti fa pure stizzire per le ricorrenti accelerate video.
Ma è un grande film.
Il segno distintivo di Simon Rumley si riconosce subito: il regista sa come far funzionare il meccanismo capace di creare terrore partendo da un dolore quotidiano, condivisibile e reale, passando per paura e follia.
La sofferenza è ovunque, è la materia prima senza la quale il film non sarebbe. E' nei muri consumati, è la muffa nelle rughe della carta da parati. Il dolore s'impenna a video in eleganti chiaroscuri annunciatori di orrori inevitabili. E' nelle vene di un braccio malato e sull'ago di siringhe prese a pugni. E' nella forma, nei colori, nel taglio della fotografia. E' nel lercio che sporca le mani, è nella rassegnazione di una madre verso l'innocenza del figlio. E' in quella pelle flaccida, in quei muscoli atrofizzati, in quelle curve femminili umiliate che riempiono la vasca in una scena durissima, seconda solo alla successiva, quella in cui alla quinta pastiglia ho dovuto stringere i denti.
Poi, dopo le legnate agli occhi, tutto s'inverte e diventa surreale: i morti diventano i vivi, i matti sono carnefici ed i sani impazziscono. Il presente diventa il futuro e si rimane spiazzati.
Niente cliché, niente comportamenti stupidi, niente effetti sonori improvvisi per far saltare dal divano: solo tragedia mentale e morte. Tutto realistico. Ho sofferto.
Finalmente una ricetta per non far sembrare i film dell'orrore prodotti di nicchia, giocattoli in cui bisogna spegnere il cervello obbedendo alla regoletta del: "vabbè, è idiota, ma è un horror!". Insomma, non solo materiale per far ridere o da nerd. Non che ci volesse molto a capire che dal dolore nasce sempre l'orrore (lo vediamo in auto, sulle strade, ogni giorno), ma Rumley l'ha fatto, troppi altri no.

Peccato che la smania da film compiuto abbia indotto il regista a non terminare la pellicola quando era forte abbastanza da comprimere il petto, quando premeva così tanto da far provare un osceno formicolio al braccio sinistro. Negli ultimi minuti, quando il cerchio si chiude in un soporifero funerale, la tensione cala un po': un ultimo, brillante, colpo di coda non avrebbe guastato.
Ma sono inezie, il film va consigliato!

P.S.: Per i più smanettoni, segnaliamo che il film è disponibile sulla piattaforma Netflix dopo l'uscita in DVD nel 2011 in Italia.

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