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Far East Film Festival 2018: intervista a Sylvia Chang

Una delle figure più importanti del cinema asiatico, ospite del Far East Film Festival 20 per presentare il suo ultimo lavoro - Love Education, storia di una disputa famigliare -, ci racconta passato e presente della sua straordinaria carriera di attrice e regista

“All’inizio volevo essere una brava cantante ma quando ho avuto la possibilità di recitare, ho capito che ero più adatta a fare l’attrice e che con il cinema potevo imparare molte più cose”.
E di cose ne ha imparate molte da allora la splendida Sylvia Chang, che oggi è un’affermata personalità del cinema asiatico e internazionale, con all’attivo più di cento film a partire dagli Anni '70 come attrice, 15 titoli come regista e ancora molti lavori come scrittrice e produttrice.
Il nuovo lavoro che la vede impegnata dietro e davanti la macchina da presa, Love Education, è la storia di una disputa famigliare. Alla morte della madre, Hui Ying (Sylvia Chang) decide di spostare la tomba del padre, morto anni prima, dal paese natio alla città dove Hui vive e dove verrà sepolta la madre. Deve però fare i conti con Nanna, la prima moglie del padre che nonostante sia stata abbandonata dal marito dopo un brevissimo tempo, da anni accudisce la tomba dell’uomo e si oppone allo spostamento.
Elegante e sicura, la signora Chang ha presentato il suo film al Far East Film Festival 2018 ed ha scherzosamente rimproverato Sabrina Baracetti di non averla mai invitata prima a Udine. In sala stampa, in tenuta sportiva, non ha perso quell’aura di sicurezza e determinazione che la circonda ovunque vada.

Signora Chang, lei è stata in molti festival in giro per il mondo, ma è il suo primo Far East qui ad Udine. In cosa si differisce dagli altri Festival?
Prima di venire qui tanti mi avevano raccontato di come il clima al Far East Film Festival di Udine fosse amichevole e rilassato. Io sono qui solo per pochi giorni e quello che posso dire è che sto mangiando tantissimo (ride), ma la cosa più buffa è che sto incontrando tanti amici che non riesco mai a vedere a Taiwan o Hong Kong. Sono tutti qui, sempre, e questo vuol dire che amano venire ad Udine. Qui posso veramente rilassarmi mentre, come saprete, andare ai festival può essere un’esperienza molto intensa perché c’è competizione, marketing, insomma diventa un lavoro. Tu sei lì per lavorare. Mentre qui sono molto felice e posso passeggiare per Udine e pensare, andare alle tante feste che organizzano, non importa se la festa filippina o hongkonghese, tutti vanno ovunque. Inoltre trovo che il pubblico qui sia molto cordiale e caloroso. Comunque anche a Taiwan, il Golden Horse si svolge in un'atmosfera cordiale.

È vero, lei è stata anche chairman del Taiwan Golden Horse Film Award.
Lo sono stata negli scorsi quattro anni, ora ho finito, ho passato il testimone ad Ang Lee. Dal canto mio, come chairman ho cercato di renderlo più amichevole perché per me i festival non dovrebbero essere una gara. Io credo che i festival siano degli scambi. Scambi di idee, di storie, per poi gustarseli insieme. Udine è un festival felice e sul programma ci sono anche degli eventi divertenti, lo yoga, il corso di pizza. Non vedevo l’ora di partecipare al gruppo di meditazione perché io la pratico regolarmente, ma purtroppo riparto domani. Comunque ho suggerito a Sabrina che la prossima volta potrei fare io delle lezioni di spaghetti cinesi: faccio degli ottimi spaghetti cinesi (ammicca ridendo al trailer del FEFF20 che quest’anno ha per tema spaghetti contro noodles).

Nel suo film c’è un tema legato al territorio che gira intorno all’idea di appartenenza, di distanza e di separazione. Può elaborarlo anche alla luce della sua esperienza personale di taiwanese che ha vissuto ad Hong Kong e altri posti?
Ho sempre viaggiato molto. Fin da quando ero giovane, ho viaggiato da Taiwan a Hong Kong, Stati Uniti, Europa, ma per me 'casa' è dove è la mia famiglia e dove è il mio amore. Quindi per me il concetto di distanza si materializza quando si cerca qualcosa al di fuori di tutto questo. Trovo che oggigiorno la gente cerchi sempre altre cose, cose materiali, ricchezza, fama, successo, ma tutto ciò è molto lontano da loro: quando la distanza diventa immensa, mentre cerchi quelle cose, ti ritrovi veramente lontano da dove il tuo cuore è veramente. Questo è ciò che penso costantemente e continuo a scrivere su questo tema, anche per il mio penultimo lavoro, Murmur of the Hearts.

Anche quel film trattava un tipo di separazione e distanza.
Sì, separazione, certo e anche in quel film, alla fine, dopo tutta quella ricerca, ciò che i protagonisti vogliono veramente trovare è dove risiedano i loro affetti. Ed è qui (si mette le mani sul cuore) e non lì (indica lontano). Ecco perché dico che la vera distanza non è misurabile in chilometri ma con il cuore. La stessa cosa anche in Love Education con cui volevo fare da ponte tra le persone e le diverse generazioni e dire: “Vi prego, comunicate, cercate di capirvi l’un l’altro e cercate di parlarvi. Provate a capire perché siete quello che siete e perché gli altri sono quello che sono, solo così potrete comunicare e capirvi”. Questo è ciò che chiamo distanza, specialmente ora che il mondo sta diventando un solo paese: non conta veramente da dove si viene, si può comunicare molto bene ugualmente. Per esempio Love Education è molto cinese ma tutti lo possono capire. Tutti abbiamo delle differenze dovute a come siamo cresciuti, all’educazione, all’ambiente, ecc... Abbiamo piccole differenze, ma nell’insieme siamo tutti simili. In cinese diciamo: “Abbiamo tutti grandi affinità, ma piccole differenze”.

Come è nata l’idea per questo film?
La sceneggiatura di questo film ha richiesto quattro anni per arrivare al suo completamento. Ho ricevuto la prima stesura quattro o cinque anni fa da una ragazza (You Xiaoying) di Chengdu, città della Cina sud-occidentale. Era una storia basata sulla sua esperienza personale, della sua famiglia e riguardava la disputa di una tomba. Mi è piaciuta molto, ma c’era parecchio da lavorare sulla sceneggiatura. Dovevo accertarmi di molte cose perché io non vivo in Cina, dove la storia è ambientata, e sapevo che c’erano tanti temi interessanti che avrei potuto inserire, come la distanza tra la campagna e la città e il cambiamento costante delle grandi città. C’è una scena nel film in cui io e mio marito andiamo in cerca della vecchia casa e troviamo che l’isolato è completamente sparito e al suo posto c’è un cantiere. Quando cercavo la location per quella scena, non riuscivo a trovarne una giusta, poi improvvisamente trovai quel cantiere, ma quando poche ore dopo ci portai lo staff era già cambiato tutto. Così abbiamo parlato con il capocantiere e ci siamo accordati per girare il giorno dopo. Quando infine siamo andati la mattina dopo, era ulteriormente cambiato e stavano già mettendo tutte le tubature. Ci pensate? Così velocemente! L’intero Paese si sta sviluppando troppo velocemente e quando questo succede, la mentalità, la cultura, non ce la fanno a tenere il passo. È spaventoso, la tecnologia è progredita troppo velocemente, ma la mia generazione non l’ha ancora raggiunta, è rimasta indietro e la gente può sentirsi persa e il divario generazionale sta diventando sempre più ampio. Questo mi spaventa a volte, è ciò che mi preoccupa veramente.

I suoi film sono spesso basati su personaggi molto ben definiti. Qual è il suo segreto per creare dei personaggi così realistici?
Quando ho ben chiaro gli obiettivi, comincio a scrivere e scrivo accuratamente di ogni personaggio, persino di quelli che poi non compariranno nella storia, come per esempio il marito morto intorno al quale si svolge la disputa nel film. Ho scritto tutta la sua storia, chi era, da dove veniva, perché aveva lasciato il villaggio, perché non era più ritornato. Scrivo tutto dei personaggi perché voglio creare una solida base in modo che ogni attore conosca tutto e nei dialoghi ognuno sappia il perché stia dicendo quello che sta dicendo. Voglio che i dialoghi siano naturali come una conversazione di tutti i giorni, non voglio che suonino come delle "dichiarazioni". Voglio che sia vivace e reale come una chiacchiera, con qualche stupidaggine qua e là, magari come una discussione con tua madre: questo crea l’atmosfera del film e fa sì che lo spettatore possa relazionarsi meglio ai personaggi e alla storia.

Nel racconto che coinvolge diverse generazioni e nelle dinamiche famigliari, sembra di rivedere qualcosa del cinema di Edward Yang. Cosa le ha lasciato l’esperienza di lavorare con lui agli inizi degli anni Ottanta?
Eravamo amici. Agli inizi ho co-prodotto un suo film per la tv e poi abbiamo fatto insieme That Day on the Beach lavorando a stretto contatto per ogni aspetto della realizzazione di questo lungometraggio (il primo del grande regista taiwanese). Era un autore completo che si concentrava molto sui dettagli. Un’attenzione che derivava dal suo mondo interiore. Non raccontava una storia a caso, in maniera superficiale. Tutto per lui nasceva da dentro ed è per questo che i suoi film ci toccano profondamente. Sicuramente mi ha influenzato conoscerlo e lavorare con lui, credo di avere una visione simile del cinema. Ma per la mia formazione sono stati importanti tutti i film che ho fatto e devo quindi ringraziare ogni regista che mi ha diretto.

Tra questi c’è anche Tian Zhuangzhuang, con il quale aveva lavorato per The Go Master del 2006, che in una rara apparizione come attore in Love Education ricopre, e in modo molto convincente, il ruolo del marito del suo personaggio. Com’è stato dirigerlo e recitare insieme a lui?
Sul set sembravamo proprio come marito e moglie! (ride). È stato davvero bello perché ha riposto in me massima fiducia. Tian Zhuangzhuang è un grande regista e molto rispettoso degli altri, sapeva benissimo cosa stavo facendo e si è messo a completa disposizione per dare il suo contributo come attore a raccontare questa storia.

Aveva pianificato dall’inizio di interpretare il ruolo di Hui Ying, la donna che vuole spostare la tomba del padre per metterla accanto a quella della madre subito dopo la morte di quest’ultima?
L’età era giusta per la parte, ma per un po’ ho cercato qualche attrice per il ruolo. Alla fine però mi sono decisa a farlo io. Conoscevo troppo bene il personaggio.

E ci ha messo anche qualcosa di personale?
Il sentimento di paura. Quella che ogni generazione prova nei confronti del futuro, dell’ignoto.

Il suo personaggio appare però come una donna forte, spigolosa e per questo forse incapace di mostrare apertamente l’amore per la figlia.
Sì, una donna forte, ma direi che è la figlia che non le dà tante possibilità di dimostrare il suo amore. Non le concede il tempo di avvicinarsi come fa invece con Nanna quando va in campagna e trascorre un periodo con lei. È anche una rappresentazione di uno dei problemi della società di oggi dove manca la comunicazione o si sbaglia il modo di comunicare. In città siamo tutti occupati a sopravvivere e finiamo con il dimenticarci l’importanza della comprensione, della conoscenza reciproca, dei sentimenti.

Sentimenti che nel film da una parte tendono a essere nascosti, custoditi nel ricordo o in una sofferenza interiore come fa la vecchia Nanna.
Nanna è una persona semplice e protegge il suo attaccamento alla tomba in nome del ricordo del suo amore, anche se era stata abbandonata dal suo uomo che si era rifatto una vita in città. Il momento chiave è verso la fine, quando lo rivede in foto, da anziano, e quasi non lo riconosce. In quell’istante capisce di aver conservato solo un amore del passato, che può lasciarlo andare. È come nel buddismo dove si parla di vuoto: ci si libera da qualcosa pur mantenendone eternamente una parte nel cuore.

Recentemente è apparsa nel film del 2017 Shuttle Life del giovane regista debuttante malese Tan Seng Kiat. Pensa che aiutare la nuova generazione di cineasti faccia parte dei doveri degli artisti già affermati?
Ho lavorato con molti registi giovani e al loro primo film, mi piace molto farlo. Ma non si tratta solo aiutarli, io stessa imparo tantissimo da loro perché a volte quelli della mia generazione hanno dei limiti e vogliono connettersi con le generazioni più giovani e allo stesso tempo aiutarle a connettersi con loro. Recentemente ho lavorato con Bi Gan in Cina e l’ho trovato brillante, ha così tante nuove idee che noi non avremmo il fegato di realizzare. I registi più giovani come lui hanno coraggio e hanno le tecnologie dei giorni d’oggi che noi non abbiamo mai avuto ma che loro usano bene. Noi possiamo imparare tanto da loro e loro possono prendere da noi altre cose che io considero molto importanti. Quindi in realtà c'è uno scambio, un movimento a due sensi, non a senso unico.

E per finire, ci può dare un assaggio del suo prossimo lavoro?
È un film che voglio fare da molto tempo, ambientato a Taiwan in quel delicato momento intorno al 1949 in cui i comunisti presero il completo controllo della Cina e due milioni di rifugiati scapparono a Taiwan. È un evento storico di cui si parla poco, ancora oggi la gente in Cina non sa bene cosa successe a quelli che scapparono a Taiwan. Dovrebbe essere una storia sugli uomini della Air Force, perché mio padre era con loro ed era lì in quel periodo, quindi ho molte storie commoventi su quella vicenda. Ma è un film difficile da fare, anche se non ho nessuna intenzione di politicizzarlo, è solo un film sulla gente. Ci ho pensato molto, ho scritto, ne ho parlato con la mia produttrice e lei continua a dirmi che non passerà la censura, ma abbiamo bisogno di investimenti cinesi per un film del genere. E’ un circolo vizioso, difficile.



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