Tokyo, anni Sessanta. Il Giappone vive un periodo di forte instabilità a causa dei tumulti scatenati dalle proteste studentesche contro l'ordine costituito. Anche la vita privata di Toru, un universitario che ama trascorrere gran parte del tempo a leggere i libri più disparati, è in stato di agitazione. Un tormento interiore tiene impegnati i suoi pensieri: un'angoscia sottaciuta dovuta all'ansia del passaggio all'età adulta, al peso delle responsabilità che lo attendono, all'incapacità di capire appieno la natura dei sentimenti amorosi. L'inquietudine del ragazzo è acuita dal rapporto complesso e problematico con Naoko e Midori, due sue coetanee, una l'opposto dell'altra: la prima è fragile psicologicamente da quando il suo fidanzato si è suicidato ed ha un carattere umbratile che la rende indecifrabile, la seconda denota una personalità estroversa, forte e solare che l'aiuta a lenire le ferite della solitudine a cui è stata condannata dall'abbandono dei suoi genitori. Toru si sente diviso tra l'amore per Naoko e quello per Midori, fino a quando le circostanze della vita non finiscono per prevalere sulle ragioni del cuore.

Una storia di amori incrociati (irrealizzati e non) tra un giovane e due ragazze che si sfiorano appena, intitolata come una hit dei Beatles ed accompagnata da una colonna sonora languida (ad opera di Jonny Greenwood dei Radiohead). Ce la racconta, in trasferta giapponese, Tran Anh Hung, cineasta franco-vietnamita, con Norwegian Wood, attesissimo rifacimento cinematografico di una vicenda di infelicità esistenziale e sentimentale narrata nell'omonimo romanzo di culto di Haruki Murakami, dove la cifra registica e l'analisi degli affetti esprimono con delicatezza e poeticità le altalene del cuore nelle fasi che precedono la consapevolezza di cosa significhi diventare adulti.

Dai fotogrammi affiora tanta poesia nei volti, nelle luci e nei luoghi. C'è quasi tutto il meglio di cui è capace Tran Ahn Hung, quarantasette anni, nato a My Tho ma cresciuto a Parigi sin dalla tenera età di dodici anni, già autore dei premiati Il profumo della papaya verde (Camera d'or al Festival di Cannes) e Cyclo (Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia): gli stacchi esemplari della cinepresa, il gusto per l'uso del colore come fosse una tavolozza pittorica, l'utilizzo della musica come parte integrante del racconto, il nitore delle immagini e la loro meticolosa e sapiente composizione. Un cinema di grande fascino visivo, quindi, con un lato a volte estenuante: una calligrafia fine a se stessa.
Il regista dimostra il suo stile intenso, mai massimalista, capace di esprimere - mescolando un pugno di giovani inclassificabili alienati e solitari, scorci suggestivi di paesaggi immersi nell'infinito della natura, ossessioni sessuali, voci fuori campo - la desolazione di una generazione che si sente schiacciata dal peso della vita, con la fotografia del geniale Mark Lee Ping-bin ed il pathos della musica rock degli anni Sessanta.
Non c'è molta azione: lo spazio in cui si muove lo sguardo di Tran Anh Hung è sempre uno spazio interiore, al punto che alla fine ogni personaggio riesce a raccontarsi da sé. Il tutto grazie ad una padronanza del mezzo cinematografico che raccomanda il regista come uno degli autori più significativi della scena asiatica.

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