Following the Sound (Kanata no uta) - Recensione
- Scritto da Davide Parpinel
- Pubblicato in Asia
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Haru è una giovane ragazza che lavora in una libreria. Un giorno ferma Yukiko perché ha percepito in quella donna un dolore profondo. Per lo stesso motivo, Haru segue anche Tsuyoshi. La ragazza si avvicina a loro con discrezione e si affianca alle loro esistenze nel desiderio di lenire le loro sofferenze. Haru, in realtà ha già conosciuto sia Yukiko che Tsuyoshi nel passato, ma ciò che li lega ora è più profondo e riguarda anche la stessa Haru che ha una sofferenza da espiare, da superare legata alla morte della madre. I tre, in momenti diversi, dialogano, si capiscono, si compenetrano fino a riconoscere che il dolore, se condiviso, può essere sopportato.
L’abbiamo già detto nelle cronache dal Lido in occasione della Mostra del Cinema oltre che nella tredicesima puntata del nostro podcast, La Luce del Cinema, in cui abbiamo dedicato uno degli approfondimenti della puntata a Kyoshi Sugita, il regista di questo film: la parola d’ordine del suo cinema e in particolare di Following the Sound, è percepire. Già il titolo del film suggerisce questa idea: seguire il suono, ascoltare il suono e capirlo intimamente a tal punto da farsi da esso trasportare. Questo suono, Sugita, lo esplicita sia fisicamente che metaforicamente. Fisicamente perché Haru, An Ogawa, segue davvero un suono, quello di un fiume che ha registrato su una musicassetta, legato a sua madre e alla sua scomparsa. Nel rimorso che prova per non esserle stata davvero vicina negli ultimi attimi della sua esistenza, quello scroscio d’acqua la tiene ancorata a lei, indagando quale corso d’acqua sia. Metaforicamente, poi, questo suono non si ode, ma è più un suono percepibile con l’anima. È il suono del dolore, della mancanza, della volontà di curare qualche cicatrice che tiene insieme Yukiko (Yuko Nakamura), Tsuyoshi (Hidekazu Mashima) e appunto Haru. I tre, in fasi diversi, mai insieme, attraverso la giovane libraia si sostengono. Non parlano, non esprimono verbalmente la loro sofferenza, ma lo spettatore la percepisce guardando come Sugita organizza i loro incroci di sguardi o nei gesti di rispetto ed educazione che vicendevolmente e con discrezione si scambiano. Per questo quando nel film Haru avvicina l’uomo e la donna, chi osserva non ha la sensazione di una sua intromissione forzata nelle loro vite, bensì del naturale e necessario bisogno che ciò avvenga. A definire questa atmosfera ci pensa anche la scena. Following the Sound, come gli altri film del regista di Tokyo, è girato lontano dalla confusione della città, in un Giappone tradizionale, ventato dal suono della natura e governato soprattutto dal silenzio; le luci tenui e i costumi dai colori non sgargianti contribuiscono a definire questa sensazione di placida cura al dolore in cui, di conseguenza, il soccorso reciproco, il percepire le difficoltà di ognuno, si attestano naturalmente. È chiaro, quindi, perché la pellicola è un film percettivo, da comprendere con lo sguardo, con gli orecchi, senza l’uso del verbo, della parola. Aggiungiamo un altro dettaglio. Il cibo, la relazione umana attorno alla tavola, lo stare insieme durante un pasto sappiamo quanto è importante nella cultura e nel cinema giapponese. Il cinema di Hirokazu Koreeda mostra molto spesso come le relazioni umane si consolidino attorno al cibo. Altrettanto fa Sugita: la relazione emotiva tra Haru e Yukiko, in particolare, si instaura primariamente quando mangiano insieme. L’atto del cucinare insieme, inoltre, è registrato con un sonoro molto accurato e con la macchina da presa fissa acuendo, così, la sensorialità del film e la confidenza emotiva tra le donne che poi trova espressione nel reciproco rispetto quando consumano il pasto. Le due donne condividono il loro stato di vita senza parlare, come detto, ma scavando l’una negli occhi dell’altra mentre sono sedute al tavolo da pranzo. Non a caso, infatti, la scena finale, l’ultimo fotogramma, in cui è raccolto il significato del film, avviene dopo aver consumato un pasto. Basta un attimo, sembra dirci Sugita, per risolvere un problema, per risanare una piaga nell’anima e altrettanto tempo per percepire il bisogno di aiuto di una persona. Poi che cosa Yukiko e Tsuyoshi serbino nel proprio animo di così doloroso, non è rilevante, è quasi un espediente narrativo, in quanto ciò che interessa al regista è la capacità di soccorrere il prossimo in difficoltà. Nel filmare questo apparato studiato e ricercato di relazioni sensoriali e di aiuto, Sugita sceglie l’inquadratura fissa e il motivo è chiaro. Muovendo la macchina, spostandola, montando incroci di sguardi o dettagli del corpo o delle cose, rischierebbe di non registrare la parte sensoriale della pellicola. Soprattutto però, se così avesse preferito fare, avrebbe portato lo spettatore a distrarsi da quello che è il fulcro della storia, ossia la relazione tra gli essere umani. La narrazione, pertanto, è consegnata allo spettatore nei suoi estremi di significato, poi sta a chi guarda integrare con le proprie emozioni e anche, se esistente, con la propria esperienza, il significato dell’opera, come ha affermato lo stesso regista.
Following the Sound, pertanto, è un film che all’apparenza può sembrare piccolo e quasi privo di significato. Poi nel prosieguo del tempo, si impossessa della mente di chi l’ha visto, cresce e comincia la sua opera di integrazione di significato. In questa seconda fase risiede la vera particolarità di questa pellicola e più in generale del cinema di Sugita, un’idea di cinema che pone al centro un significato di reciproca sussistenza umana rilevante e fondamentale nella contemporaneità.
Crediti fotografici: Kanata no uta (Following the Sound) - An Ogawa, Yuko Nakamura, Hidekazu Mashima
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Davide Parpinel
Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.