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Don't Go Too Far - Recensione

Esordio apprezzabile del regista coreano Park Hyun-yong, Don't Go Too Far è un dramma-thriller da camera con finale action che affronta alcuni aspetti della società coreana

Mentre il vecchio genitore sta morendo, i quattro figli, tre maschi ed una femmina, insieme alle rispettive famiglie, si riuniscono nella casa paterna per ricevere notizie sugli ultimi voleri del moribondo alla presenza di un notaio. La cospicua eredità viene divisa in parti diseguali privilegiando il figlio maggiore con anche una quota da consegnare come donazione alla Chiesa. La scelta paterna non viene ben accettata da tutti, diventando la miccia di una situazione di tensione strisciante tra i componenti della famiglia. Mentre i figli discutono sulla diseguale spartizione decisa dal padre, giunge una telefonata in cui un misterioso rapitore chiede due milioni (guarda caso l’ammontare dell'eredità) di riscatto per liberare il figlio del fratello più grande.
Da qui prende il via un racconto che miscela dramma e sarcasmo (la scena del notaio che chiede la sua parte come onorario mentre la famiglia sta decidendo se usare i soldi per pagare il riscatto, è addirittura esilarante), critica sociale e studio psicologico, fino a giungere al più classico dei colpi di scena.
Strutturato per larga parte come il più tipico dramma-thriller da camera con finale action, Don’t Go Too Far è il solido esordio del regista coreano Park Hyun-yong, un film che pur partendo da una situazione che non presenta certamente connotati di grandissima originalità, riesce ad essere intelligente soprattutto nel modo di trattare alcune tematiche.
Costruito su quattro atti, proprio come una piece teatrale, il film, come detto, si consuma per larga parte tra le quattro mura della casa paterna dove si ritrovano i figli per ascoltare il testamento. La suddivisione che privilegia il figlio maggiore prima, il colpo di scena della telefonata del rapitore poi, la richiesta del padre del rapito di poter utilizzare l’eredità per pagare il riscatto, i vari colpi a sorpresa, piccoli e grandi, che si susseguono nei poco più di 70 minuti del film, contribuiscono a portare a galla un clima di avversione reciproca e di meschinità tra i vari componenti della famiglia, motivo per cui Don’t Go Too Far diventa ben presto non solo un thriller ma anche e soprattutto uno spaccato antropologico che mette a nudo le bassezze umane in generale e quelle più tipiche di una società per certi versi iper-tradizionalista come quella coreana.
Lo sguardo del regista è carico di sarcasmo, a volte addirittura divertito nel raccontare come i protagonisti si affannino tra menzogne ed opportunismi e di come cambino i punti di vista e le prospettive personali in base ai propri interessi. Il finale da action movie rompe l’atmosfera quasi da piece teatrale per delineare, con il colpo di scena finale e con lo sguardo tragicamente comico del regista, i contorni di una storia che lascia trasparire aspetti grotteschi e che il regista stesso ha la capacità di tenere ben sotto controllo, grazie ad una direzione convincente che si basa essenzialmente sulla forza dei dialoghi, sulla costruzione dell’immagine nello spazio chiuso, per la quale Park utilizza anche qualche scelta tecnica particolare, e sul tono e le atmosfere con cui viene raccontata una storia che vuol essere molto 'coreana', caratteristica che molti registi indipendenti hanno adottato di recente per mostrare pregi e difetti di una società complessa e particolare come quella coreana che ha sì sposato la modernità spinta da un grande sviluppo economico ma che rimane in molti aspetti ancorata a forti legami con le tradizioni.

Don’t Go Too Far è insomma un lavoro piccolo, ma che mostra le notevoli ambizioni e le buone capacità di un regista esordiente che faremo bene a tenere sotto occhio nei prossimi anni.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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