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Blind Way - Recensione

Ultimo capitolo di una tribolatissima trilogia, Blind Way non possiede quasi nulla, soprattutto a livello di stile narrativo, di quel cinema di Li Yang che aveva abbagliato nei suoi due lavori precedenti, risultando invece troppo carico di toni melodrammatici

A dieci anni di distanza dal suo ultimo lavoro, Li Yang porta finalmente a termine la sua tribolata trilogia iniziata nel 2003 con Blind Shaft e proseguita nel 2007 con Blind Mountain, entrambi lavori di notevole spessore che avevano legittimamente creato grande attesa intorno al terzo capitolo che tra difficoltà varie, compreso il problematico rapporto del regista con la censura, vede finalmente la luce nel 2017.
Dopo aver affrontato il tema dei lavoratori clandestini nelle miniere abusive di carbone e quello della schiavitù femminile nei primi due capitoli, Li Yang in Blind Way rivolge lo sguardo alla tematica dei ragazzi mendicanti nelle grandi città schiavizzati da organizzazioni criminali dedite allo sfruttamento. Il protagonista della storia è Zhao Liang, un tempo famoso cantante ed ora mendicante che si finge cieco per sbarcare il lunario, vendendo rosari buddisti e crocifissi nelle strade della metropoli. Nei lunghi corridoi della metropolitana Zhao incontra una ragazzina cieca (veramente) che elemosina, con la quale dapprima cerca di entrare in società per poi sentire uno slancio di affetto e di protezione. La ragazzina, Jing Jing, dapprima si mostra molto diffidente, ma quando intuisce che l’uomo potrebbe diventare la sua via di fuga dalla orrenda realtà diventa più docile accettando di rifugiarsi presso la sua casa.
Jing Jing è il prodotto di un infame traffico di ragazzini che i genitori hanno venduto a delinquenti che li sfruttano: la famiglia di contadini è un incubo per la ragazzina e i suoi nuovi padroni non sono da meno; questi ultimi da parte loro non intendono certo rinunciare ad un'importante fonte di profitto, così Zhao Liang si ritrova, suo malgrado, in una situazione pericolosa che però decide di affrontare spinto dal crescente affetto che prova per la ragazzina.
C’è qualcosa di drammatico nel passato dell’uomo e che spiega la sua caduta in disgrazia da cui scaturisce una ricerca di redenzione che passa nella liberazione di Jing Jing dalla odiosa forma di schiavitù in cui si trova impigliata. Il legame tra i due diventa ogni giorno più saldo, come può esserlo quello che si instaura tra due emarginati mossi dalla reciproca pietas.
Li Yang parte da una inchiesta personale condotta qualche anno or sono che lo portò a scoprire il mondo del traffico umano minorile, e in accordo con il tema della schiavitù sotto forme diverse espressa nei suoi lavori precedenti, ne ha fatto il tema di questo suo lavoro che peraltro ha incontrato notevoli difficoltà nella sua costruzione. Nel frattempo il regista è stato anche lo sceneggiatore di Tsui Hark in The Taking of Tiger Mountain, sinonimo di un probabile abbandono di quel cinema autenticamente indipendente e che, nel suo complesso, Blind Way sembra confermare.
Quando finalmente il film ha visto la luce, con il beneplacito della censura, gran parte della critica si è mostrata fortemente delusa per il sostanziale cambio di registro avuto dal regista nel suo modo di raccontare le storie della Cina moderna.
Blind Way è infatti non solo lavoro nettamente al di sotto dei due precedenti ai quali è legato in questa ipotetica trilogia, ma è anche lontanissimo da quella forza narrativa intrisa di dramma e di crudezza: la pellicola, infatti, sebbene tratti una tematica che in Cina sta diventando di grande attualità, troppo spesso manca di incisività adagiandosi in maniera fin troppo smaccata su toni da melodramma, tralasciando, colpevolmente, gli aspetti più duri e sporchi della problematica.
Blind Way somiglia insomma un po’ troppo a quei film di redenzione nei quali la sporcizia, invece di essere mostrata, viene nascosta sotto il tappeto: probabilmente le difficoltà con la censura hanno avuto il loro peso così come alcune affermazioni del regista che lasciano pensare ad un definitivo abbandono non tanto delle tematiche quando di uno stile neorealista. Sta di fatto che Blind Way raramente sembra una opera concepita dallo stesso regista che seppe stupire con Blind Shaft grazie alla sua crudezza e alla descrizione di un mondo privo di morale.

Insomma, paradossalmente, Blind Way sembra un film uscito un po’ troppo frettolosamente dalla mente del suo autore, sebbene il suo travagliato percorso farebbe pensare il contrario: è soprattutto lo sviluppo della storia di questo strano connubio tra i due personaggi che non convince molto, oltre allo stile decisamente più edulcorato del regista che solo in qualche raro sprazzo sembra avere lo spessore e la forza a cui ci aveva abituato in passato.
Il regista stesso indossa i panni di Zhao Liang, personaggio indubbiamente complesso e soverchiato dal suo passato ma forse troppo poco indagato, mentre la giovane Du Hanmeng risulta convincente nei panni della ragazzina cieca soprattutto nell’esprimere tutto il carico di disagio e di paure derivate dalle violenze cui è sottoposta.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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