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Bamboo Dogs - Recensione (Across Asia Film Festival 2018)

Un thriller notturno che affronta il tema della corruzione della polizia e dei governanti 'intrappolando' lo spettatore in un furgone con i protagonisti di una storia ispirata a un fatto di cronaca della metà degli anni Novanta

Prima di tutto è necessaria un po’ di storia. A metà anni Ottanta nelle Filippine viene creato un gruppo paramilitare con l’idea di contrastare la guerriglia comunista. Nel 1995 l’organizzazione, che ha preso il nome Kuratong Baleleng, è diventata un potente sindacato criminale protetto anche da funzionari governativi. Nel maggio di quell’anno, però, le forze della Commissione presidenziale contro la criminalità commettono un vero massacro: undici membri, tra i quali un adolescente, vengono uccisi. Un’esecuzione sommaria. Il caso approderà tempo dopo anche nelle aule di un tribunale, senza però che si arrivi all’apertura di un procedimento penale come chiesto dai familiari delle vittime. Questi i fatti storici ai quali si ispira Bamboo Dogs, introdotti in apertura del lungometraggio presentato in prima italiana all’Across Asia Film Festival 2018.
Sapere come andrà non toglie qualcosa all’atmosfera di tensione che lo sviluppo narrativo riesce a creare. Tutto si apre con un raid della polizia in un edificio dove si trovano alcuni membri della gang. L’arresto non sembra preoccuparli più di tanto, come fosse una cosa di routine si aspettano l’immediato rilascio forti della cooperazione con l’autorità. Gli agenti Esquivel e Corazon hanno il compito di scortare gli uomini fermati, tra di loro c’è anche un ragazzino, alla stazione di polizia dove dovrebbe avvenire la scontata liberazione. Durante il tragitto, però, gli ordini cambiano.
Bamboo Dogs affronta così il tema della corruzione della polizia e dei governanti, adottando soprattutto il punto di vista delle vittime della strage. Uomini prima che criminali suggerisce Khavn De La Cruz. Nell’occasione persone impotenti. Girato tutto di notte, il film è ambientato in gran parte nel furgone che trasporta gli arrestati in quello che sarà il loro ultimo viaggio. Per questo motivo la camera è molto vicina ai personaggi. E complice il buio aumenta la sensazione di sentirsi intrappolati in quella situazione con loro. I dialoghi sono costruiti come conversazioni apparentemente insignificanti. Scelta da una parte interessante perché senza forzature sottolinea quella che sarebbe una situazione di normalità (la banda criminale non sospetta nulla del suo destino fino a un certo punto), dall’altra toglie qualcosa alla caratterizzazione dei personaggi che risulta solamente abbozzata. Di tanto in tanto l’occhio della camera si sposta fuori dal furgone (ottimo in generale il lavoro del direttore della fotografia Albert Bazon) e cattura il cuore notturno di Manila con le sue luci e i suoi rumori. Da segnalare inoltre due cose, quasi estranee rispetto al resto del film dal punto di vista stilistico. In apertura, nell’edificio dove avviene la cattura, un magnifico piano sequenza di diversi minuti orchestrato con grande precisione che contrasta con le riprese e il montaggio più concitati che caratterizzano il film man mano che si va avanti. Nel finale quello che appare quasi come uno scherzo, un momento ironico del sempre sorprendente Khavn De La Cruz: una sorta di videoclip con Rez Cortez, protagonista come capo della gang, che si muove sulle note del brano Susan (testo e musica dello stesso regista filippino). Una di quelle canzoni che ti si piantano subito in testa.

Un film notturno, teso e politico, che dimostra la capacità di Khavn De La Cruz di muoversi senza difficoltà in diverse direzioni e giocare con lo stile. Anche all’interno dello stesso film.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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