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Festival di Roma 2013: considerazioni finali

Gli inviati di LinkinMovies.it tracciano un bilancio della ottava edizione del Festival del Film di Roma: ecco cosa ha funzionato e cosa no

Neanche il tempo di arrotolare il tappeto rosso del Festival Internazionale del Film di Roma che già la politica da cui dipendono le sorti della rassegna (Comune di Roma, Provincia e Regione) è in ebollizione per deciderne il futuro.
Le proposte sono le più disparate e ormai si fa a gara a chi la spara più grossa. C'è chi vuole cancellare la manifestazione (dimenticando che Roma ha già un clamoroso deficit di cultura rispetto ad altre capitali europee). C'è chi propone di accorparla al Roma Fiction Fest (come se cinema e serialità televisiva fossero la stessa cosa). C'è chi parla di fallimento e chiede a gran voce di cambiare date, luoghi e contenuti (in favore di non si sa bene cosa...).  Ma cosa ne sanno i politici di cosa serve a un festival per farlo funzionare? Quali competenze hanno per dire cosa è giusto e cosa è sbagliato per la rassegna? Nessuna. In un Paese normale dovrebbe essere il direttore del festival, ovvero Marco Muller, a tracciare il sentiero.
Muller è il numero uno nel suo campo: è il vero asso nella manica della rassegna capitolina. E' un instancabile fabbricatore di festival che ha fatto dell'eclettismo il suo successo. Del resto in quale altro cinefestival capita di vedere nello stesso Concorso due registi agli antipodi come Takashi Miike ed Nils Malmros? Muller ha capito prima di tutti - già durante la sua esperienza alla guida della Mostra del Cinema di Venezia - che i festival andavano ripensati per farli diventare contenitori schizofrenici in grado di richiamare tipologie diverse di pubblico. Il cinema non ha più steccati: non esiste più il cinema 'alto' e il cinema 'basso'. Tutti i generi, o meglio tutti i modi di fare cinema, meritano di essere rappresentati. Il programma del Festival di Roma 2013 andava in questa direzione, pur con tutti i suoi limiti. E' un buon inizio, una strada che merita di essere percorsa per dare finalmente una fisionomia compiuta alla kermesse. A patto però che la politica dia carta bianca a Muller e che lo stesso Muller non si pieghi agli umori dei politici come alcune sue dichiarazioni lasciano intendere.    
Altrimenti nessuno saprà che pesci prendere. E l'evento continuerà ad essere un carrozzone che viene vissuto come un peso da chi non è un appassionato di cinema. Lo si percepisce ogni anno tra le mura dell'Auditorium, dove non tutte le sale (vedi la Santa Cecilia) vengono messe interamente al servizio della rassegna. E lo si capisce anche dallo staff dello stesso Auditorium, che dovrebbe assicurare un agevole e piacevole svolgimento del festival e che invece spesso mostra poco rispetto per il ruolo a cui è chiamato (vedi alcuni episodi di cui vi parleranno gli altri due inviati negli interventi in basso). (Francesco Siciliano)    

Come sempre in fase di consuntivo meglio cominciare dalla fine e cioè dalle decisioni della Giuria che ha assegnato i Premi del Concorso Ufficiale.
Quest'anno non si è verificato, per fortuna, nulla di paragonabile a quanto accaduto lo scorso anno, quando i giurati riuscirono nell'ardua impresa di premiare alcuni tra i lavori peggiori del festival. Pur affidandosi ad alcune scelte francamente poco comprensibili (la voce di Scarlett Johansson vincitrice del premio per l'attrice, il premio a Kiyoshi Kurosawa per il contributo tecnico), i riconoscimenti sono almeno in gran parte condivisibili, al di là delle singole valutazioni dettate dal giudizio personale. Tir non era certo il miglior film della rassegna, ma il riconoscimento ci può stare (a proposito, comincia a diventare un po' autoreferenziale la scelta di premiare documentaristi nostrani nel festival italiani). Semmai quello che lascia un minimo perplessi è la sensazione di avere voluto premiare trasversalmente un po' tutti i tipi di cinematografie e di generi, aspetto questo che comunque ci può stare anche esso.
Non è stato uno spot premiante vedere la Cerimonia di Chiusura disertata da gran parte dei premiati, segno forse di una lacuna organizzativa e di un blasone che il Festival del Film di Roma chiaramente ancora non possiede.
Nel complesso la selezione ufficiale è sembrata mediamente accettabile con diverse luci e altrettante ombre, spaziando tra generi lontanissimi, che se da un lato dimostrano la ecletticità delle scelte del direttore Marco Muller, dall'altra confermano una sensazione che già l'anno scorso il festival aveva offerto e cioè la non ben precisata fisionomia che vorrebbe avere dal punto di vista artistico, figlia probabilmente della sterile polemica semantica tra Festa e Festival cui abbiamo assistito alla vigilia dell'evento. La mano di Muller comunque si comincia ad apprezzare, e l'auspicio è che possa continuare a lavorare nella maniera più autonoma possibile libero da condizionamenti di varia natura.
Quello che invece non convince è la scelta di mettere in piedi un festival al limite del pletorico con quattro sezioni più un numero cospicuo di opere Fuori Concorso: il tutto sembra andare a scapito sia dell'organizzazione che della possibilità di poter seguire il programma in maniera più completa possibile. Anche la scelta delle retrospettive appare poco felice: si assegnavano due Premi a registi di caratura mondiale quale Aleksej German (alla carriera) e a Tsui Hark (Maverick Director Award): perché non sfruttare l'occasione per allestire una retrospettiva di pochi, ma ben selezionati, lavori di questi autori?
Dove invece il festival ha mostrato falle notevoli è stato nella organizzazione che gli altri anni invece era stata più che accettabile, opinione questa condivisa anche da osservatori stranieri consultati a tal scopo: troppo spesso si è avuta l'impressione che le decisioni fossero in mano (e nei walkie talkie) degli operatori fuori delle sale, sistematicamente stravolte giorno dopo giorno; inoltre l'aver rinunciato alla strutture provvisorie esterne all'Auditorium, in quanto disponibili tutte le sale dell'Auditorium, ha ingenerato un caos nelle file e nell'accesso alle sale stesse, offrendo, di fatto, una minore possibilità di  assistere alle repliche e  pericolose sovrapposizioni di orari. Inoltre un po' più di rigidità nelle presenze sul red carpet avrebbe sicuramente favorito il loro successo: troppo spesso attori e registi si son trovati a percorrere il tappeto circondati da una moltitudine di personaggi presente non si capisce bene a quale titolo, togliendo visibilità e possibilità al pubblico di  osservare da vicino i protagonisti.
Ancora più sconcertanti le scene che si sono verificate alla fine delle proiezioni serali, quando zelanti addetti dell'organizzazione hanno accompagnato alla porta protagonisti e fans con la motivazione che "l'Auditorium deve chiudere" ( è successo con Takashi Miike e con Tsui Hark) mettendo in evidente imbarazzo i registi intenti a scattare foto e firmare autografi. Se non si capisce che anche gli addetti ai lavori oltre che il pubblico, prima di essere utenti sono degli appassionati che magari hanno la possibilità di vedere per la prima volta il proprio attore o il proprio regista preferito, non si fa altro che alimentare un assurdo star system che i protagonisti per primi rifiutano. Tanto difficile organizzare uno spazio in cui attori e registi, se vogliono, possano confrontarsi coi propri fans? Possibile che quello che vorrebbe diventare un evento cinematografico importante debba sottostare agli orari di chiusura come un qualsiasi negozio? Ma il peggio è che i protagonisti stessi si rendono conto di ciò e probabilmente ne traggono le ovvie conseguenze.
Detto ciò, il Festival è finito, viva il Festival, sperando che il prossimo anno ci porti una rassegna ancora più valida. (Massimo Volpe)

Due parti del corpo esultano a fine festival. La schiena, messa a dura prova dalle file all’ingresso delle sale e da poltrone non sempre comodissime, e la parte del cervello che chiede di recuperare le ore di sonno mancanti. Eppure nonostante la fatica quando tutto finisce, dopo giorni intensi, di visioni, di passaggi da una sala all’altra, di film più o meno belli, non vedi l’ora che arrivi il prossimo. Chi ama il cinema non può non amare i festival. Una droga, una magia che cambia la vita di chi li vive durante la manifestazione. Il resto che succede nel mondo non conta. Non c’è tempo e voglia di saperlo, di stargli dietro. Il dio cinema ti succhia tutte le energie, un sacrificio che si fa volentieri perché è dolce il naufragar in quel mare di visioni. Quattro, cinque anche di più al giorno per alcuni 'eroi'. Film, ma non solo. C'è tutto quello che gira intorno e il confronto con amici e colleghi. Ma che dire nello specifico del festival, dell'ottava edizione della rassegna romana?
L’organizzazione. O meglio la disorganizzazione. Chi scrive non era mai stato al Festival di Roma. L'impatto è stato abbastanza sconvolgente, con alcuni giorni necessari ad ambientarsi. Incomprensibili prima di tutto alcune scelte riguardo la programmazione. Due esempi: una terza replica per Snowpiercer (uno dei film più attesi) inizialmente prevista e poi tolta, un'unica proiezione per pubblico e accreditati per Blue Planet Brothers e in una delle sale più piccole (con regista, Takashi Miike presente, insieme alla delegazione, per un breve incontro dopo il film). Ovviamente in molti son rimasti fuori. Più in generale vanno evidenziate le difficoltà del personale a gestire le file, la confusione agli ingressi e alle uscite delle sale, i ritardi nelle proiezioni in certi casi superiori ai venti minuti. Certo, parte dei problemi è conseguenza di una struttura che non appare completamente adeguata (necessaria qualche altra sala, anche a tendone, per gestire il forte afflusso di un festival di questo genere).  Problemi anche nei trasporti, per raggiungere l'Auditorium. Ridicola la navetta linea cinema con capolinea Barberini. E' anche vero che un festival così paga il fatto di essere metropolitano, sia per problemi strutturali sia per l'incapacità di creare quel clima festival che avvolge il Lido a Venezia o centri medio piccoli in manifestazioni non necessariamente cinematografiche.
I premi. Quello dell'assegnazione dei premi a fine festival è sempre un argomento discusso e discutibile. Il più condivisibile sembra quello dato come miglior interprete maschile a Matthew McConaughey che porta a termine il suo sdoganamento da bello da commedia ad attore completo iniziata con Killer Joe di William Friedkin. Nel discreto Dallas Buyers Club appare trasformato anche fisicamente, irriconoscibile, scheletrico nei panni di un malato di AIDS. Unico avversario per il riconoscimento il sempre convincente Joaquin Phoenix, protagonista di Her che avrebbe meritato il premio come miglior film per distacco. Vince invece Tir, un altro film italiano dopo Sacro Gra a Venezia. Un altro documentario, apertamente falso (protagonista un attore professionista, Branko Zavrsan) ma apparentemente più vero di Sacro Gra a cui si fa preferire. Il film di Spike Jonze si consola con il premio per la miglior attrice a Scarlett Johansson alla quale basta la voce, bellissima, a sbaragliare la scarsa concorrenza. Il premio senza la parte fisica della recitazione è certamente discutibile, meno nel caso specifico perché si fatica a trovare (altre) interpretazioni femminile da segnalare. Per gli altri premi difficile soprattutto essere d'accordo con  quello come miglior opera prima/seconda andato a Out of the Furnace. Non solo per la banalità di un film pieno di cliché e con un cast sprecato, ma per un riconoscimento giustamente più spesso rivolto a opere magari acerbe,  ma di registi che meritano di essere sostenuti. Scott Cooper, prodotto da Ridley Scott e Leonardo DiCaprio, non ne aveva bisogno. Al di là dei premi nel complesso la qualità media dei film non ha soddisfatto  completamente rispetto alle premesse del programma aiutato dalla presenza di film non tutti in anteprima mondiale. Incomprensibile la presenza in concorso di un paio di film, a cominciare dall'imbarazzante Another Me. Non sono mancati comunque i colpi interessanti messi a segno da Muller, come il premio alla carriera postumo assegnato ad Aleksej German con l'anteprima del suo Hard to be a God, uno di quei film difficili da affrontare per la narrazione, ma di una potenza visiva tale da segnare lo spettatore e un festival. (Fabio Canessa)

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