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Far East Film Festival 2014: il diario della sesta giornata

Giornalisti d'assalto, ragazze problematiche e schive, coppie in crisi, 'action hero': i protagonisti dei film proiettati al Day 6 della kermesse di Udine

Per premiare la svolta adulta dei film mattutini, mi costringo a una levataccia per The Devil's Path di Kazuya Shiraishi, definito, dai curatori del Far East Film Festival 2014violent crime thriller’. In realtà si tratta di una storia del genere ‘giornalisti d’assalto’, che non manca quasi mai nella rosa dei film giapponesi in rassegna. Uno yakuza condannato a morte vuole vendicarsi del suo boss, il sensei, denunciandolo come mandante degli omicidi da lui commessi. Per farlo, ingaggia un giornalista che indagherà con coraggio anche contro il parere iniziale del suo direttore. Niente di originale in un film che ha nella sceneggiatura il suo peggior nemico. Le stesse vicende prima mostrate in breve, poi narrate oralmente, quindi riprese integralmente sembrano lo schema di un corso, più che un film. Preziose ore di sonno buttate.
Prosegue la serie adulta con May We Chat di Philip Yung, in quello che si rivelerà essere, pur con tanti difetti, la visione più interessante della giornata. Tre studentesse di diversa estrazione sociale ma tutte con famiglie problematiche, sono superficiali amiche di chat. Quando una delle tre sparisce, le altre affronteranno parecchi rischi per ritrovarla. Una cruda scena di sesso mercenario riscatta la presentazione farraginosa e laconica delle ragazze, rassicurando lo spettatore anti ‘coming of age’ sul fatto che, quanto vedrà, non sarà la solita sequenza di amori, tradimenti e problemini di adolescenti middle-class ma una vera storia di malavita e degrado sociale. Così sarà, con buona definizione dei caratteri e salda mano registica. Ci sarà pure spazio per una citazione di un vecchio film sugli adolescenti di Hong Kong Anni ’80, i cui attori, in questo film, sono ormai adulti. Si esce contenti di averlo visto, nonostante le lacune di sceneggiatura e alcune risoluzioni di trama un po’ scontate.
Con Tamako in Moratorium di Nobuhiro Yamashita si rientra, ahinoi, in ambito più ‘normale’. Tamako è la solita deliziosa ragazza, che non sa ovviamente di esserlo, un po’ problematica e schiva. Torna a vivere dal padre, dopo gli studi, e non fa altro che mangiare e oziare. Quando il padre divorziato vorrà iniziare una nuova relazione, la ragazza si smuoverà dalla propria apatia. Film piccolo e delicato per cuori uguali. Cinici e vecchi biliosi avvertiti.

Appena più interessante, per la buona scrittura degli aspetti relazionali descritti, è Very Ordinary Couple, della regista esordiente Roh Deok, presentata con orgoglio come ‘prima regista donna’ a salire sul palco del Festival (non so se quest’anno o nella sua storia). Lui e lei, impiegati di banca, si lasciano, litigano per tutta la separazione, si rimettono insieme e poi, inevitabilmente, si lasciano di nuovo. Storia vissuta da tutti, più o meno, riconoscibile da tutti e di quelle che normalmente interessano poco. Questa non fa eccezione se non per il taglio antropologico e secco dello sguardo. E comunque non annoia.
Il filmone di punta della giornata è As the Light Goes Out di Derek Kwok, storia di pompieri e del loro eroismo in una catastrofe che arriva a spegnere tutte le luci di Hong Kong (tramite trucchi in post produzione, come spiegato dal regista alla curiosa e sempre più stralunata presentatrice, Sabrina Baracetti, direttrice del festival). Dopo una breve presentazione dei caratteri principali, il film arriva subito al sodo con l’esplosione del gasdotto che fornisce la centrale elettrica e conseguente distruzione della stessa. Ma chi è rimasto intrappolato dentro casualmente? Proprio il figlio di uno dei protagonisti. Tra sacrifici, sforzi, tensione e una presenza del fumo denso, entità spettrale e demoniaca, presentato all’inizio come il vero nemico del pompiere, il film arriva in porto come ci si aspetta, dopo quasi due ore. Derek Kwok è bravissimo nel ritrarre situazioni senza dubbio molto difficili e renderle visivamente comprensibili, si concede un momento di puro lirismo nella sequenza del sacrificio con l’aria ‘Je crois entendre encore’ di Bizet in versione lounge, fa soffrire lo spettatore con grande mestiere. Peccato che soggetto e retorica siano un po’ logori, anche per un prodotto ‘popolare’ come questo.
Abbandono, per manifesta inferiorità fisica, The Snow White Murder Case di Yoshihiro Nakamura. Più che la noia poté il sonno…

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