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Diario da Venezia 78: giorno 7

Il nostro diario (quasi) giornaliero dalla 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica che racconta la nostra vita quotidiana a sfioro del Lido, intrisa di film, opinioni, aneddoti, incontri, spunti e tantissime riflessioni, soprattutto di cinema

Il concorso mostra le sue carte decisive. Ieri è stato il giorno di La caja (The Box) di Lorenzo Vigas, e L'évènement della regista francese, poco conosciuta, Audrey Diwan che ha fatto urlare di gioia la stampa italiana. Noi non lo abbiamo visto, ci siamo persi un capolavoro? Oggi è stato il turno di Qui rido io di Mario Martone (visto) e Vidblysk (Reflection) dell’ucraino Valentyn Vasyanovych, il film che dal direttore Barbera, era stato presentato come seminato di una violenza quasi fastidiosa. Ma non lo abbiamo visto a causa dei problemi ormai noti. Invece abbiamo visto il film cambogiano di Orizzonti, Bodeng Sar (White Building). 

In diretta dal Lido. In questo nuovo capitolo del Diario che racconta la vita alla Mostra, vogliamo parlarvi delle sue sale, sacro tempio del cinema lidense. La Mostra dispone di un bel numero di sale che tutte insieme costituiscono il maggior numero di posti a sedere per un festival del cinema. Sono tutte sale con una forte valenza storica (perché di costruzione molto antica), spaziose e acusticamente valevoli. Sono: la Sala Grande e le minuscole Sala Pasinetti e Sala Zorzi all’interno del Palazzo del Cinema; la Sala Darsena; la Sala Perla, Perla 2, Volpi e Casinò all’interno del Palazzo del Casinò; la Sala Giardino, il famoso 'cubo rosso' che viene montato e smontato ogni anno, proprio come il PalaBiennale. Poco distante da questa c’è l’Arena del Lido e infine, La Biennale ha preso in prestito alcune sale cinematografiche del Lido, di Venezia e di Mestre per le repliche di alcuni film e per il pubblico. Quelle all’interno della cittadella, come detto, presentano una cavea in cui si sente e si vede bene in ogni punto, con poltroncine più o meno comode (soprattutto dopo la ristrutturazione avviata dall’ex Presidente Baratta) e raggruppate in diverse sezioni. Il suono, quindi, è rotondo e chiaro e il buio, il buio del cinema, è davvero intenso a tal punto che quando uno smartphone si accende, si proietta una luce così forte che viene vista da tutti gli spettatori. Lo stesso accade quando si aprono, accidentalmente, le tende che coprono le porte di uscita: in questi casi trapela un fascio di luce che sconvolge lo spettatore, come un raggio di sole la mattina presto. Dall’edizione scorsa per le restrizioni sanitarie, le poltroncine sono sanificate e quelle non utilizzate per l’alternanza dei posti, sono sigillate con un nastro. Diciamo, che da quando i posti a sedere sono prenotati e l’ingresso in sala è scaglionato, sono meno frequenti gli ingorghi lungo i corridoi all’ingresso dovuti a coloro che cercano il famigerato 'posto migliore'. Questo è un grande mito della Mostra e sostanzialmente non esiste. Non esiste perché stando a chi lo invoca, 'il posto migliore' deve avere un buono spazio per le gambe, deve offrire un’ottima visione e ascolto, oltre che essere distante dal flusso della gelida aria condizionata (nelle sale della Mostra si gela, è noto!). Un’utopia, praticamente. Ci sono anche quelli che nonostante la grandezza dello schermo, soprattutto nella Sala Darsena e al PalaBiennale, si posizionano tra le primissime file. Sinceramente non sappiamo come facciano a stare lì per ore. Noi solo una volta abbiamo visto un film in terza fila in Sala Darsena e ci siamo slogati il collo. Di contro, ci sono quelli che preferiscono stare in ultima fila, quindi distanti svariati metri dallo schermo. La visione è sicuramente migliore, ma la porzione di sala che entra nel cono visivo è enorme. Chiunque si sieda in questa posizione, riesce a vedere un cellulare che si accende in prima fila. Esistono anche le vie di mezzo, ossia coloro che si siedono lungo i corridoi. C’è la comodità, ma allo stesso modo il fatto di non avere barriere davanti per le gambe, a volte crea simpatici episodi. Alla visione di Lav Diaz, The Woman Who Left, Leone d’Oro nel 2016, abbiamo visto una persona, tra le dodici totali che eravamo, addormentarsi e quasi scivolare dal sedile. Il capitolo di chi si addormenta, poi, delle posizioni assunte e dei rumori nasali emessi, avrebbe bisogno di un capitolo a parte (anche con aneddoti personali!). 

Poi ci sono quelli, soprattutto i giornalisti, che prendono appunti durante la visione. Perdonateci, ma questi, più di tutti gli altri, proprio non li capiamo. Perdono diottrie su diottrie, per cercare di appuntare battute, l’evolversi della storia, o qualsiasi cosa gli appaia interessante, su un quaderno, completamente immersi nel buio. L’unica fonte di luce è lo schermo, quindi capite che una pellicola dalla fotografia molto scura, può creargli numerosi problemi. Al termine del film questi si trovano pagine intere scritte in diagonale, con frasi sovrapposte e caratteri illeggibili che non sappiamo come riescano a interpretare. La domanda è: perché non lasciarsi catturare dal film, così da memorizzare tutti gli elementi necessari per la scrittura della recensione? Non è meglio guardare e capire?! Un episodio in merito alla vita in sala che, invece, ci ha lasciati un po’ scocciati è che nelle proiezioni per il pubblico e gli accrediti in sale come la Darsena e il PalaBiennale, quindi molto capienti, abbiamo notato intere sezioni di posti riservate al pubblico, vuote. Non è che forse, cara Biennale, i posti per il pubblico sono stati, molto spesso, sovrastimati a svantaggio soprattutto degli accrediti che, così, non sono riusciti a prenotate il proprio posto? Comunque a parte tutto ciò, le sale della Mostra sono davvero sontuose e restituiscono perfettamente il fascino del cinema, della sua visione globale, del suono rotondo e di quel buio che ci è mancato davvero tanto negli ultimi mesi. 

Capitolo conferenze stampa. Partiamo da Qui rido io alla presenza di Mario Martone, della cosceneggiatrice Ippolita di Majo e degli attori Toni Servillo, Iaia Forte e Maria Nazionale. Ha moderato Alessandra De LucaMartone si è presentato tranquillo, sorridente, sereno e ha risposto a fiume a ogni domanda, fornendo molte spiegazioni, di stile, di linguaggio, sulla storia e sui motivi che l’hanno spinto a fare questo film. Per quanto riguarda i temi, il regista ha affermato che Qui rido io parla di paternità negata, di voglia di riscatto sociale da parte di Scarpetta che nasce povero e poi si afferma socialmente e del potere creativo di Napoli. Scarpetta è un essere fagocitante: fagocita Pulcinella, la vita, il teatro, la stessa Napoli, tutti i suoi figli legittimi e illegittimi a cui trasmette il seme creativo del teatro e che fa tutti studiare; è un campione di amoralità che crea una famiglia-tribù. Martone, poi, ha affermato che in fondo a questo personaggio c’era un mistero, un elemento della sua vita che lo accompagna e che il film pone in evidenza. Così, Qui rido io si presenta come un romanzo corale, con Napoli sullo sfondo, con tanti personaggi, una commedia che fa ridere e assume, allo stesso tempo, le tinte della tragedia. Il regista poi ha rivolto un pensiero a Toni Servillo, dicendo che finalmente ha potuto lavorare con lui. L’attore si è particolarmente emozionato per questo attestato di stima, dicendo che lo stesso vale per lui. Sul personaggio che interpreta, ha detto che Scarpetta era un animale che cacciava entro un limite ben preciso: le sue prede erano le donne, i testi, il teatro, la città in uno scambio continuo tra scena e vita. Il film è, pertanto, un affresco eccellente di un attore che celebra la vita.

Abbiamo poi seguito la conferenza stampa del film ucraino Vidblysk (Reflection) in concorso che non abbiamo visto, ma eravamo curiosi di saperne qualcosa in più. Erano presenti il regista Valentyn Vasyanovych, gli attori Roman Lutskiy e Andriy Rimaruk. Ha moderato Paolo Bertolin. Quest’ultimo ha affermato con grande soddisfazione che per la prima volta alla Mostra è presente un film ucraino in Concorso. Il regista, nello spiegare il suo film, ha messo in evidenza che è nato per spiegare a sua figlia il senso della vita, della morte e delle cose in generale. Voleva, inizialmente, girare un documentario, poi però, mentre scriveva la sceneggiatura è giunta la notizia del rilascio dei soldati ucraini che si trovavano nella prigione russa nel 2014 e che erano stati trattati in modo orribile. È riuscito, quindi, a ottenere la testimonianza di un giornalista che ha passato due anni in questa stessa prigione, e, quindi, ha deciso di scrivere un film in cui il protagonista aveva trascorso del tempo in questo luogo e una volta tornato a casa doveva ripristinare il dialogo con sua figlia. Il regista, poi, in merito alle scelte di linguaggio, ha affermato che essendo lui anche l’operatore, il direttore della fotografia e il montatore dei suoi film, la prima cosa che ha scelto, come per tutti i suoi lavori, è la location, perché le scene devono sempre apparire reali. L’intento generale di Vidblysk (Reflection) è mostrare cosa succede nel mondo nel XXI secolo, ossia nell’ennesima guerra che si svolge dietro casa, di cui nessuno parla e per questo il film è senza uscita. 

Finalmente in sala. Qui rido io di Mario Martone è una commedia, amara e tragica a tratti, su una parte della vita di Eduardo Scarpetta, un attore, un regista teatrale, un capocomico e, in una parte della sua splendente carriera, il teatro stesso tra fine Ottocento e inizio Novecento. Era in grado di sedurre il pubblico, di ammaliare Napoli intera grazie al suo personaggio di Sciosciammocca che aveva letteralmente seppellito nell’immaginario collettivo la maschera di Pulcinella; la sua fine, al contrario, fu tragica e misera. Di questa parabola discendente si occupa Martone, lasciando a Toni Servillo il compito di indossare la maschera e restituire al pubblico le movenze, le paure, i conflitti e le numerosissime gioie di Scarpetta. Il film, pertanto, si presenta come una cavalcata storica, accurata nell’esposizione dei fatti, nella definizione dei costumi e degli interni e nella scelta musicale che, però, si appesantisce nel momento in cui c’è la svolta narrativa. Essendo la pellicola prevalentemente ancorata sull’interpretazione dei personaggi, da Servillo a Iaia Forte, Gianfelice Imparato oltre al giovane Eduardo Scarpetta, erede dell’altro Scarpetta, Mario, nel momento essenziale si svuota della sua struttura linguistica, lasciando prevalere l’interpretazione alla storia. Soprattutto la regia di Martone scompare e il montaggio cronologico porta al finale. Manca un vero punto di vista, un taglio di scrittura che non si legasse all’unico aspetto più evidente di Scarpetta, ossia la sua famiglia allargata, ma che mettesse in evidenza altro. Martone e Ippolita di Majo potevano approfondire la amoralità del personaggio o il suo legame con il teatro o ancora i suoi sentimenti nel momento in cui la popolarità si spegneva. Così facendo, il personaggio di Scarpetta avrebbe creato più curiosità soprattutto in chi non conosce questo enorme interprete del nostro teatro. 

Il presente del ventenne Samnang coincide con quello del regista cambogiano Kavich Neang. Il ragazzo protagonista del film White Building (Bodeng Sar), diretto appunto da Neang, presentato nella sezione Orizzonti, è diventare un ballerino di hip-hop, magari raggiungendo il successo attraverso un talent show. Il suo grande desiderio scricchiola non solo perché appartiene a una famiglia di estrazione bassa che ha pochi mezzi, ma soprattutto perché abita nel White Building, storico caseggiato di Phnom Penh in Cambogia, in cui ha abitato anche il regista, che deve essere abbattuto, perché il comune vuole ammodernare la città. Questo è il fulcro del film cambogiano che si apre con una visione dall’alto del palazzo e si conclude con la nuova vita del ragazzo in un contesto differente. In mezzo il regista conduce una riflessione sul presente e sul futuro del protagonista, mostrando come la sua vita cambi, perché la società attorno a lui muta velocemente. White Building è un racconto dal basso, molto riflessivo e personale, inquadrato lentamente, con piccoli e lenti movimenti di macchina, al fine di porre in evidenza con chiarezza tutti gli aspetti di questa evoluzione. Per questo il film è comprensibile e un compito cinematografico svolto correttamente, senza squilli, né problemi evidenti. 


Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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