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Far East Film Festival 2018: intervista a Moon So-ri

“Ci sono vari modi di attraversare la vita. A volte si corre, si cade, a volte ci si riposa. Se penso al mio passato, quando avevo 20 o 30 anni, tutto ciò che mi viene in mente è che ero concentrata a correre”: incontro al Far East Film Festival con l’attrice e regista coreana che ci parla di Hong Sang-soo, Lee Chang-dong e del suo percorso di avvicinamento al debutto dietro la macchina da presa con The Running Actress

Professionale ed elegante, ma anche ironica e informale. Tanto da poterla trovare seduta sul prato del Teatro Nuovo di Udine, casa del Far East Film Festival, in un momento di pausa dagli impegni di giornata. Insieme ad altri coreani (si riconoscono il marito regista Jang Joon-hwan e la regista Yim Soon-rye) a chiacchierare e bere qualcosa. Sembra quasi una scena del suo film, The Running Actress, con il quale ha esordito alla regia dopo aver raggiunto il successo come attrice recitando per grandi autori come Lee Chang-dong e Hong Sang-soo. E diversi aspetti del cinema di quest’ultimo si possono cogliere in questo primo lavoro anche dietro la macchina da presa di Moon So-ri. “Quando vedono un film coreano all’estero con scene dove i personaggi bevono, tutti pensano al cinema di Hong Sang-soo” risponde sorridendo all’inizio dell’intervista.

E viene da immaginare lei con Hong Sang-soo che parlate del suo esordio da regista, davanti a un bicchiere. Gli ha fatto leggere per caso la sceneggiatura?
No, non l’ha vista. Comunque tra noi c’è una grande differenza: io non reggo bene l’alcol, dopo un bicchiere torno direttamente a casa e ho bisogno di andare a letto (ride).

Si nota comunque come abbia fatto tesoro dell’esperienza con un regista che l’ha diretta più volte, in questo suo primo film dove si è ritrovata anche dietro la macchina da presa.
Certamente. Mi sento in debito con lui, ma anche con gli altri registi con i quali ho lavorato.

Partiamo allora dal primo, Lee Chang-dong che ha il merito di averla lanciata.
Per me è stato fondamentale, ho debuttato come attrice nel suo film Peppermint Candy. Ho imparato tantissimo da lui, allora ero come un bambino che impara a camminare o a mangiare. Mentre stavo lavorando al mio film ho pensato spessissimo a quella mia prima esperienza. Poi ho girato con lui Oasis ed è stato durissimo, ai limiti del sadismo, però mi ha insegnato a buttarmi. Nel dirigere un film serve molto coraggio per prendere le decisioni ed è stato lui a insegnarmi ad avere quel coraggio.

Ha citato il meraviglioso Oasis che ha rivelato al mondo il suo talento. Come si preparò a un ruolo, quello di una ragazza disabile, così difficile?
Ricordo una lunga preparazione. Circa sei mesi e poi altri sei per le riprese. Mi aiutò anche il fatto che all’epoca studiavo pedagogia e nello stesso momento mi occupavo di ragazzi disabili che volevano entrare all’università, aiutandoli nel preparare l’esame di ammissione.

Per la sua interpretazione vinse il premio Mastroianni come miglior attrice emergente alla Mostra del cinema di Venezia. Come ricorda quel momento?
Devo confessare che di primo acchito, in quel momento, non avevo capito a chi si riferisse il premio, solo dopo ho realizzato che portava il nome di quell’attore che avevo visto in tanti film italiani. Era il 2002, è passato tanto tempo, ma ancora oggi Mastroianni è per me come un protettore che mi guarda dal cielo, un angelo custode presente nei momenti di difficoltà, quando ho bisogno di conforto. Mi piace ricordare tra i suoi lavori, in particolare 8 ½ dove interpreta un regista (l’alter ego di Fellini) alle prese con le difficoltà di realizzare il suo film. Un po’ lo stesso sentimento che ho conosciuto adesso che ho iniziato a fare la regista.

Quando ha capito che era arrivato il momento di passare alla regia?
Lavoro da tanto nel cinema, sempre con grande passione. Ed è stata questa passione a spingermi qualche anno fa a studiare cinema all’università anche se ero già un’attrice affermata. Ma non avevo intenzione di diventare regista, il motivo principale per il quale mi ero iscritta era quello di approfondire meglio il mondo cinematografico che mi aveva dato tanto. Poi tutto è avvenuto gradualmente. Decidendo di studiare all’università, dopo aver già lavorato molto come attrice a ritmo frenetico, ho riscoperto del tempo per me. Mi è servito per ricaricarmi, è stato terapeutico, e mi ha anche regalato un risultato per me prezioso che è la realizzazione di questo film.

Decisamente autobiografico, tanto che il personaggio mantiene il suo nome. Perché questa scelta?
In genere gli attori sono visti per i ruoli che interpretano, e loro stessi possono avere difficoltà a capire la propria identità. Ma siamo anche noi persone come le altre. Volevo vedermi da lontano, in modo più oggettivo, e mostrare agli altri che oltre essere una attrice sono anche io una donna e una mamma. Con la sua vita quotidiana non tanto diversa da quella di tutti.

Ma come è stato raccontarlo ricoprendo sul set il doppio ruolo di regista e attrice?
È stata sicuramente una situazione insolita, nuova per me. Come attrice la prima cosa che ero abituata a fare all’arrivo sul set era quella di truccarmi. Adesso dovevo consultare lo staff, andare dietro la macchina da presa. È stato divertente quando recitavo dover dire a me stessa cut alla fine di ogni scena, essendo io anche la regista. Insomma una situazione particolare, ma interessante.

Il titolo del film è The Running Actress (L'attrice che corre) e nella locandina appare lei su una pista di atletica, vestita elegantemente. Che significato metaforico ha per lei la corsa?
Ci sono vari modi di attraversare la vita. A volte si corre, si cade, a volte ci si riposa. Se penso al mio passato, quando avevo 20 o 30 anni, tutto ciò che mi viene in mente è che ero concentrata a correre. Questo è ciò che volevo esprimere nel titolo. Inoltre come attrice devo anche essere elegante a volte e non posso come tutti correre in calzoncini, ma in tacchi alti.

Il film parla delle difficoltà di un'attrice, ma anche delle difficoltà di una donna. Inoltre nella sua carriera in ruoli non mainstream ha spesso dato voce e potere alle donne coreane. Continuerà la sua carriera di regista e continuerà a narrare storie di donne?
Non ho ancora deciso nulla di preciso per il futuro, ma una cosa sicura è che mi piace moltissimo fare film, che sia da attrice o da regista o sceneggiatrice, qualsiasi ruolo, perché mi piace proprio il processo in sé. Il prossimo film potrebbe essere su me stessa, su una donna, o su una minoranza, non lo so. Ora che ho lavorato anche come regista, voglio assaporare ogni aspetto del fare film, ma non ho ancora deciso la prossima mossa.

Nel suo film si può leggere anche una velata critica al cinema coreano di oggi quando un personaggio suggerisce che “ormai si fanno solo film di gangster e non ci sono molti ruoli per te”. Ci può dire cosa ne pensa del cinema di questi ultimi anni in Corea?
Oggigiorno le cose più importanti sono gli investimenti e gli investitori, quindi naturalmente ci sono molti blockbuster e si può certamente dire che non ci sia una grande varietà di generi. Ma d'altro canto, in confronto ad altri paesi dell'Asia, forse da noi è comunque meglio da questo punto di vista. Io vorrei cercare di espandere il mio lavoro a generi e progetti differenti. Come attori ci si preoccupa sempre del lavoro futuro, ma ora che ho lavorato anche come regista vorrei allargarmi ad altre esperienze.

In una scena nella parte finale, al funerale dell'amico regista, il suo personaggio parla del deceduto e lo denigra. Ha paura lei dei suoi colleghi, di essere giudicata aspramente da altri registi?
Credo che sia un diritto del pubblico criticare i film, anche i capolavori, ma realizzando il mio film ho pensato che sia molto importante avere una certa attitudine verso i colleghi e le persone con cui si lavora. Bisogna comprendersi e avere rispetto per gli altri. Questo per me è molto importante. Il pubblico può dire quello che vuole, ma tra colleghi bisogna supportarsi.

Quell’episodio del funerale si conclude con un passaggio dove omaggia Ladri di biciclette.
In quella scena con il bambino che al funerale del padre si ritrova in una stanza con un proiettore, inizialmente non sapevo cosa inserire. Poi la scelta è arrivata naturale, perché è uno dei miei film preferiti e ho pensato fosse il più adatto da far vedere al bambino che si trova in quella situazione.

Se in quella scena lascia spazio anche al silenzio, nel resto del film abbondano lunghi dialoghi. Seguono tutti un copione preciso o ha lasciato spazio all'improvvisazione degli attori?
No, no, tutto era scritto rigorosamente. Però se in futuro farò altri film vorrei gradualmente cominciare a sperimentare un po' di improvvisazione. In questo caso non mi sentivo sicura abbastanza senza una guida e inoltre molti degli attori non erano professionisti.

E tra gli interpreti c’è anche suo marito, il regista Jang Joon-hwan. È stato difficile convincerlo ad accettare la parte?
Fino al giorno prima delle riprese non voleva, ma io ci tenevo a scegliere lui per i suoi modi gentili che servivano per il ruolo. Alla fine abbiamo trovato un accordo. Gli ho promesso che lo avrei ripreso solo di spalle, mai davanti, e ha accettato. Poi sul set l’ho trovato che si stava truccando. Gli ho chiesto perché e mi ha risposto: i registi spesso ingannano gli attori, non c’è da fidarsi (ride).



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