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The Police Officer's Wife - Recensione (Venezia 70 - In concorso)

Per rappresentare lo stillicidio di una violenza domestica, Philip Groening riversa sullo spettatore oltre tre ore di film suddiviso in ben 59 capitoli. Violenza inutile, accettata e subita in entrambi gli ambiti. Salvo uscirne, per chi ne ha la forza

È approdata probabilmente per errore alla Mostra del Cinema di Venezia, quest’opera di Philip Groening, già autore dell'eccellente Il grande silenzio, sulla vita dei monaci certosini presso il monastero della Grande Chartreuse, in Francia. Meglio avrebbe figurato come installazione video alla Biennale Arte. La forma nella quale il regista ha costretto la narrazione (59 brevi capitoli ognuno introdotto da una copertina che recita: “Inizio capitolo N” e da una chiusa con “Fine capitolo N”) si attaglia molto di più a un riservato ambito artistico concettuale che a una più popolare sala cinematografica, dove l’Arte deve necessariamente annacquarsi o esaltarsi, se si preferisce, nello 'spettacolo'.
Dentro questa forma, la storia di una giovane famiglia: lei, lui e una bimba di pochi anni. Si amano, giocano. Lui fa il poliziotto. Lei è casalinga. Dopo un litigio apparentemente futile, lui diventa violento e quasi a ogni nuovo capitolo vediamo aumentare i lividi sul corpo di lei, che subisce senza reagire. Già al quinto capitolo la programmatica struttura si mangia la storia e l'estetica. Gli elementi più enigmatici: un vecchio, che occupa alcuni dei capitoli, ripreso nella sua quotidianità, l'effetto speciale di una vasca da bagno che diventa piscina, l'eutanasia di un cervo ferito, sembrano sparsi a casaccio o, comunque, annegati nell'estraniante scansione. La bella fotografia malickiana, applicata a una piccola storia e ad anonimi ambienti, risulta ancora più irritante che nelle opere di Terrence Malick stesso. Ci si sente violati, come pubblico, insultati, brutalizzati. Ma è proprio la stessa violenza che Groening esercita sullo spettatore nel costringerlo a subire un racconto a singhiozzi, con sguardi estetizzanti su particolari banali ed estenuanti dissolvenze, a diventare l'elemento forte del film, l'elemento di riflessione, nel senso di riproduzione. Chi è seduto in sala subisce una violenza simile a quella perpetrata sulla protagonista. Come lei, è paralizzato dal gioco sociale in cui è coinvolto, dall'investimento affettivo dell’esserci. Certo, come hanno fatto in tanti durante la proiezione, ci sono sempre il rifiuto e l'allontanamento come opzioni per porre termine a quanto si è deciso di non sopportare oltre. Ai più, invece, e con loro la vittima sullo schermo, ripugna abbandonare il gioco che si è scelto a causa di pochi momenti di dolore.
In questa prospettiva, l'operazione o la performance è riuscita. Si esce pieni di lividi e sordo livore da questa esasperante proiezione, proprio come la protagonista.

Come film, nel senso di racconto per immagini, invece, il fallimento è pressoché totale e il Premio Speciale della Giuria sembra più un omaggio al tema affrontato (la violenza domestica sulle donne) che un’attestazione di valore cinematografico.

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