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RoboCop - Recensione

Remake dell’omonimo film cult degli anni Ottanta, il RoboCop diretto da José Padilha segue i punti cardine del classico del 1987, rivisitandone i temi in chiave contemporanea e cercando di andare oltre all'effetto spettacolare

C’è sempre un pericolo con i remake di film che sono diventati cult: snaturare completamente tutto ciò che erano per puntare semplicemente a creare un prodotto che attiri nelle sale più gente possibile. Nonostante il rischio fosse molto alto anche con il rifacimento di RoboCop, a quanto pare si è cercato di andare oltre all'effetto spettacolare, finendo per toccare vari temi che sono oramai all’ordine del giorno.
Il film segue i punti cardine del classico del 1987: una Detroit in un futuro vicino in cui l’agente di polizia Alex Murphy, interpretato da Joel Kinnaman, rimane in condizioni critiche e per essere salvato viene posto all’interno di un corpo robotico allo scopo di creare un nuovo agente a metà tra umano e automa, in modo da poter smuovere l’opinione pubblica per poter far prendere piede la distribuzione di robot atti alla difesa dal crimine anche sul suolo americano.
Tutto il film viene intervallato da un notiziario condotto da Pat Novak, interpretato da Samuel L. Jackson, che cerca di convincere l’opinione pubblica verso l’adozione di robot poliziotti negli Stati Uniti. Il notiziario è forse il primo e principale sbocco della morale del film: una critica diretta al nazionalismo sfegatato americano. Notiamo per esempio come Pat si interessi di più delle vite degli americani salvati in territori di guerra in cui operano queste macchine piuttosto che delle popolazioni quasi oppresse dall’esercito. Ed è con i continui attacchi a chi continua a scegliere di essere difeso da agenti umani piuttosto che da robot privi di sentimenti, che viene rappresentata quella parte di società che è disposta a passare sopra a tutto e a tutti pur di arrivare a ciò che vuole. In una scena in particolare, in cui Pat inneggia alla grandezza del popolo americano, traspare tutto lo sfrontato ego che caratterizza le persone nelle posizioni di potere, in maniera quasi grottesca e, a dirla tutta, demenziale.
Ma non è solo la critica al nazionalismo che caratterizza il film. Infatti un altro dei temi principali è il confine tra razionalità umana e 'freddezza clinica' delle macchine. Alex rimane appunto in fin di vita, e viene quasi convertito a robot con il consenso della moglie. Nel film precedente era irrisoria la parte umana presente in fin dei conti nel nuovo corpo di Alex, e anche in questo film ciò che rimane di umano in lui è poco e niente, facendo appunto notare la sua necessità di essere una macchina per poter continuare a vivere. E una macchina è costretto ad essere da chi lo programma anche per poter eseguire perfettamente gli ordini, senza interferenze dalla sua parte più umana. Da questo nascerà il conflitto tra la sua natura umana e la sua parte robotica, che si svilupperà nel corso della pellicola.
Per quanto riguarda il costume del personaggio, il nuovo design è totalmente differente dal classico corpo che eravamo abituati a vedere. Si vede sicuramente l’influenza avuta da Christopher Nolan con i suoi film dedicati al Cavaliere Oscuro nella progettazione del nuovo corpo di Robocop, per via delle varie piastre che vanno a comporre il tutto e la predominanza del nero, distante dal grigio metallico del costume classico.
Gli effetti speciali sono curati, le scene d’azione risultano fluide e non troppo macchinose, i robot sono animati in modo molto convincente. Ciò che distanzia la pellicola dal precedente è anche sicuramente la minore presenza di violenza. Mentre l’originale era un film ricco di scene particolarmente crude, questo RoboCop firmato José Padilha presenta pochissimi momenti segnati da una particolare violenza, distaccandosi quindi dall’originale e magari facendo storcere il naso a qualche purista della precedente pellicola.
Sotto il punto di vista recitativo possiamo godere di ottime performance, portate avanti da grandi attori come il già citato Samuel L. Jackson o come Gary Oldman e Michael Keaton. Kinnaman non convince pienamente nei primi momenti, ma la poca espressività calza a pennello quando la macchina prende il sopravvento sulla parte umana, rendendo bene la freddezza del personaggio.

In conclusione, RoboCop riesce a farsi apprezzare, seppur con qualche punto debole che lo allontana dall’essere una pellicola che come il precedente film entrerà tra i cult di una generazione, e anzi presenta qualche spunto di riflessione interessante, che lo rende qualcosa di più del mero blockbuster d’azione.

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