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Non aprite quella porta 3D

John Luessenhop, pur nella cornice 'cheap' del sequel 3D di un cult sporco e blasonato, riesce a fotografare l'orrore contemporaneo, fatto di vuoto e inutilità, con lucidità, sangue e neo-pudore

Da sempre, si sa, i film dell'orrore sono uno degli strumenti più fedeli per fotografare e mostrare le correnti sotterranee, le tendenze socio-politiche, l'immagine, la riflessione che una comunità, società, civiltà fa su se stessa.
Nel film di John Lussuenhop Non aprite quella porta 3D, Heather, la giovane rampolla di casa Sawyer (un’anoressica e pettoruta Alexandra Daddario), cresciuta nell'ignoranza delle orrifiche vicende del passato, eredita dalla nonna la casa dove questa viveva insieme allo scampato Leatherface del film precedente (lo psicopatico con la motosega, per i pochi che non conoscessero la vicenda). Dopo una partenza in perfetta liturgia di genere (coppie di amici, furgone, ammazzamenti), la scoperta delle proprie origini genera nella ragazza un ribaltamento di prospettiva e nel film una svolta dolente e rassegnata che solo una lettura superficiale può identificare come una possibile apertura a produzioni seriali (per quanto le due cose non si escludano).
Heather è l’archetipo della disillusione e del vuoto in cui si dibattono i giovani americani e non: un lavoro da poco (o nessuno), relazioni interpersonali fedifraghe e senza spessore (amica e fidanzato che se la fanno alle sue spalle), una società ottusa e violenta, senza regole né principi. In questo contesto, anche l’abbraccio macabro del cugino assassino fa calore, fa ‘casa’.
Negli anni '70 la famiglia uccideva il sogno eversivo dei giovani. Oggi, i giovani senza più sogni, cercano una impossibile identità in ciò che rimane della vecchia istituzione famigliare: l'appartenenza feroce e infantile, il legame di un sangue malato perché incestuoso e sterile nei suoi frutti. Spunta perfino un neo-puritanesimo di ritorno, evidenziato nella pellicola, dalla grande attenzione a non mostrare alcuna nudità, laddove nel genere, diversamente, si è sempre abbondato.

Dal punto di vista del puro intrattenimento, il prodotto non è peggio di tanti altri del genere. Non fa paura ma qualche spavento, qua e là, lo regala. Ci sono sangue e buoni effetti truculenti. Diverte la motosega che spunta dallo schermo ma quello che rimane è l’orrore della rinuncia, della rassegnazione a convivere e continuare ad alimentare quel ‘mostro’ sociale e esistenziale dal quale non si è riusciti a fuggire.

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