La mafia uccide solo d’estate - Recensione
- Scritto da Danilo Bottoni
- Pubblicato in Film in sala
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Tutta colpa di Gipi. E’ colpa sua. Da quando mi ha detto che non vuole far uscire il suo ultimo film perché ci sono brutte persone come me che scrivono cose brutte, faccio fatica a scriverle, le cose brutte. E allora parlerò bene di La mafia uccide solo d’estate, anche se lo fanno tutti.
Il giovane Arturo, narrando in prima persona la propria vita, la presenta come scandita dagli omicidi di mafia, dal concepimento coincidente con l’omicidio di un boss al piano di sotto, alla dichiarazione d’amore scritta sul marciapiede spazzato via dalla bomba che uccise Rocco Chinnici, fino al primo bacio durante i funerali di Paolo Borsellino.
Il romanzo di formazione di Pif s’interseca con trent’anni di cronaca nera di Palermo, mescolando storia d’amore, stragi mafiose e denuncia politica dell’ignavia dei suoi concittadini e delle Istituzioni.
Lo stile è quello suo, televisivo, il solito: voce fuori campo che racconta e commenta quanto lui stesso fa e vede ‘in’ campo. C’è un ragazzino che, per metà film, interpreta Pif da giovane, c’è il mix d’ironia e serietà che marca anche i sui suoi servizi su MTV (accreditata tra i produttori), c’è quell’impegno ‘giovane’ ma per bene che ammicca al popolo dei giovani perbene.
E i giovani perbene hanno risposto col premio del pubblico al Torino Film Festival 2013. Meritato. Nel senso che voglio parlare bene di questo film e che davvero non è girato peggio di Sole a catinelle. L’atmosfera, con le debite differenze di comicità, è la stessa. Se ci fosse uno Zeligone, un multisala Italia 1 (o MTV, è lo stesso) i due titoli starebbero accanto.
A me, i film con i bambini “a fare la festa più bella”, citando il poeta, non piacciono. Perché i pargoli sono sempre simpatici, sempre teneri. Troppo facile. Ma io voglio parlare bene del film e il piccolo Arturo (Alex Bisconti) è bravissimo, la sua innamorata da bambina (Ginevra Antona) ancor di più. Più dei loro doppi adulti, Cristiana Capotondi compresa.
Il cinema mi piace quando sorprende, quando racconta storie mai sentite prima o racconta quelle note in modo inedito. Mi piace quando non blandisce, non ammicca, non tratta il pubblico da scemo. Non che l’opera prima di Pierfrancesco Diliberto lo faccia, parlandone bene. Secondo me l’intento, la volontà di trovare una cifra narrativa che riesca a trattare con leggerezza e impegno civile il sempre attuale tema della mafia, è sincero e risoluto. La strada dei film 'usa e getta' è però, spesso, lastricata di buone intenzioni, velleità didattiche (vedi il finale), di grandi speranze. Ecco, proprio l’affinità dei nomignoli Pif e Pip (il protagonista del grande romanzo di Dickens) ha fatto scaturire nel mio animo bilioso e maligno, questo pensiero: in fondo, il quasi simpatico Totò Riina (Antonio Alveario), è come Magwitch, il benefattore galeotto di Grandi speranze; entrambi i personaggi fanno la fortuna dei loro pupilli. Come dire: la mafia è sempre molto fotogenica e la fiction è sempre la fiction. Fare nome e cognomi, ormai, fa parte dell’evoluzione del genere e ricordare i caduti al cinema, si perdoni il cinismo, sa un po’ di retorica.
I fan della ex iena non resteranno delusi. Per gli altri, ricordiamo che al cinema il telecomando non funziona.