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Kill Me Please

La locandina di Kill Me PleaseSuicidi organizzati in una clinica isolata tra le montagne: un medico a favore dell’eutanasia offre assistenza a persone che vogliono togliersi la vita. Si può scegliere come, dove e quando morire? La ‘dolce morte’ in una commedia dark in bianco e nero che ha trionfato al Festival del Film di Roma
In una remota località del Belgio circondata dalle montagne ha sede una clinica in cui si praticano suicidi organizzati. A capo della struttura c’è il dottor Kruger, un terapista all’avanguardia fermamente convinto che il suicidio debba essere un atto consapevole svolto con assistenza medica. La sua attività, invisa ai comuni cittadini ma sostenuta dai politici, si pone l’obiettivo di aiutare gli aspiranti suicidi, molti dei quali sono malati terminali, a togliersi la vita con dignità attraverso un percorso di avvicinamento graduale alla morte che prevede un protocollo meticoloso ed inflessibile. Non tutte le persone che desiderano farla finita ricevono l’aiuto di Kruger: solo chi dimostra serie e profonde motivazioni può essere accettato nella clinica. Tra i suoi pazienti in attesa di darsi la morte figurano cinque individui eccentrici: un comico con un cancro incurabile, un commesso viaggiatore che cela sordidi segreti, un erede lussemburghese, una ragazza con manie autolesioniste, un vecchio cabarettista berlinese dalla voce rovinata ed un uomo che ha perso la moglie a causa del gioco d’azzardo. Tutti vogliono morire al più presto, ma farlo non sarà così semplice come avevano preventivato…

Una scena del filmAmbizioso apologo diretto con piglio ridanciano da Olias Barco, premiato con il Marc’Aurelio d’Oro alla quinta edizione del Festival del Film di Roma, Kill Me Please è una grottesca allegoria, politicamente scorretta, contro una certa società del benessere (i personaggi appartengono quasi tutti a classi medio-alte) che, dinanzi allo spauracchio del fallimento esistenziale o – ancora peggio – al rischio di una scomparsa prematura, pretende di affogare il proprio dolore nell’eutanasia, decidendo come, dove e quando esalare l’ultimo respiro. Temi come la ‘dolce morte’, l’alienazione, l’isolamento, l’autodistruzione, il rifiuto della vita sono esasperati e portati alle estreme conseguenze con freddezza e lucidità all’interno di un pamphlet nichilista con un’anima da commedia nera.
Rutilante di provocazioni e simboli, il film, prima ancora di essere un attacco velato all’utopia della libera scelta di morire che alla prova dei fatti si traduce in una triste (dis)illusione (perché la morte è qualcosa che, se programmata e privata della sua imprevedibilità, si trasforma in una farsa: questa la tesi di Barco), descrive con l’arma della risata la fine che aspetta chi pensa di autodeterminare il proprio destino fino al momento della dipartita. Colpisce sin dalle prime sequenze per il tono livido delle immagini (la fotografia è in bianco e nero), a contrasto con l’andatura vivace ed a tratti altamente esilarante della vicenda. Ne segue una rappresentazione dai toni funerei, spietata e senza sfondi positivi che oscilla tra la satira di costume e l’umorismo nero.
Nel cinema di Barco, però, mancano troppo spesso – volutamente – l’armonia e l’equilibrio e quelli che potrebbero essere dei pregi diventano a volte difetti. Bisogna riconoscergli, comunque, un impegno delle intenzioni ed uno stile cinematografico che mirano in alto e che spesso non lasciano indifferenti lo spettatore. Finale da non perdere.

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