Il padre - Recensione
- Scritto da Francesco Siciliano
- Pubblicato in Film in sala
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La cosiddetta trilogia sull'Amore, la Morte e il Diavolo pensata da Fatih Akin trova la sua conclusione con Il padre (in originale The Cut). C'era molta attesa attorno all'ultimo capitolo sul tema del male e della sofferenza che l'uomo è in grado di infliggere ai suoi simili. Akin è considerato uno dei registi europei più importanti in circolazione e con i precedenti episodi della trilogia (a cui ha fatto seguito il divertissement Soul Kitchen) si era conquistato i favori della critica. Ma qualcosa è cambiato nel cinema del cineasta turco-tedesco dai tempi di Ai confini del Paradiso (2007), secondo capitolo della trilogia. La visceralità del suo sguardo sembra aver perso lo smalto di un tempo.
Il padre inizia con la caccia della polizia turca di tutti gli armeni presenti nella cittadina di Mardin. Siamo nel 1915, quando la deportazione degli ameni per mano dei turchi si tradurrà da lì a poco in quello che la Storia ha definito come un genocidio. Un destino a cui sta per andare incontro Nazareth Manoogian, un giovane fabbro di fede cristiana che viene separato dalla moglie e dalle sue figlie per essere deportato in un campo di lavori forzati. Grazie ad una serie di fortunose circostanze, l'uomo riesce a salvarsi la pelle nel momento in cui i turchi ordinano la sua esecuzione. Scampa alla morte, ma perde l'uso della parola a causa di una brutta ferita. Solo, senza un soldo, sperduto in terre aride e desolate, Nazareth scopre che le sue figlie sono ancora vive. Trova così la forza di rimettersi in sesto per intraprende un viaggio alla loro ricerca che lo porterà dai deserti della Mesopotamia all'Avana fino a giungere negli Stati Uniti.
Fatih Akin ha diretto e scritto (con il supporto di Mardik Martin, sceneggiatore statunitense di origini armene) una storia vicina alle sue origini turche (il genocidio è ancora un tabù in Turchia) ma allo stesso tempo lontana dalle sue corde di regista. L'Odissea a cui va incontro il protagonista rappresenta l'occasione per Akin di confrontarsi con una pagina spinosa del passato, ma il suo approccio sembra quanto di più lontano ci sia dall'immaginario a cui ci ha abituato con i suoi film precedenti. Il padre ha il respiro epico di quei melodrammi in cui Storia e privato si intrecciano fino a scontrarsi drammaticamente. Forse sarà il tema, forse il rispetto per la memoria, forse la voglia di portare gli spettatori (turchi in primis) a conoscere ed interiorizzare una tragedia ancora oggi poco conosciuta, fatto sta che Akin rinuncia a quel suo sguardo penetrante in favore di una forma narrativa e visiva che punta tutto sull'emotività della storia. Certo, il regista non ci risparmia la brutalità di alcuni episodi legati al genocidio (del resto non poteva essere altrimenti...), ma la scelta di parlare al grande pubblico (vedi l'uso della lingua inglese anche se l'azione si svolge in gran parte in Turchia) si traduce in un progressivo scivolamento verso i territori del melò stilizzato che - sinceramente - non ci saremmo aspettati da uno come Akin.
Quello che doveva essere un viaggio dell'orrore nel Male, svanisce a poco a poco per lasciare posto ad una più normale e semplice storia di perdita e riconciliazione.
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