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Maps to the Stars - Recensione

Dramma famigliare ('non il solito' a detta del regista), tra incesto e follia, ambientato in una Hollywood lussuosa e cattiva, elevata a simbolo di un'umanità senza speranza che può solo aspirare all'annientamento

Il Dottor Weiss è un terapeuta new age, che miscela, nelle sue terapie, massaggi e psicodramma. Sua moglie è la manager del figlio Benjamin, un attore tredicenne, cinico e fragile, con problemi di tossicodipendenza. Sua paziente è una nevrotica diva sul viale del tramonto (Julianne Moore, premiata a Cannes come miglior attrice) ossessionata dalla madre, anch'essa attrice, morta in un incendio. Tra loro spunta un giorno l'inquietante Agatha, ragazza sfigurata e stramba, a mettere in collisione le loro già instabili vite con i mostri repressi o espressi dell'anima.
La sinossi non inganni. Non c'è nessun angelo vendicatore in Maps to the Stars. Non l'irriverenza antiborghese di Buñuel, non la religiosità laica del Teorema pasoliniano e nemmeno i mostri surreali di Visitor Q, il capolavoro di Takashi Miike. Agatha (l'ormai vocata a questi ruoli Mia Wasikowska) è una pistola carica, ma è anche vittima e complice di quelli che saranno i suoi bersagli. Il sistema è chiuso, nelle case di lusso, nelle limousine, nelle roulotte degli attori e nelle sale riunioni. Non possono entrare elementi estranei. Niente può deflagrare perché il caos e l'irrazionale sono già integrati nel circuito. Anche i fantasmi sono elementi normali con i quali fare i conti. Si può solo implodere, auto-cicatrizzarsi, scomparire in un nulla che ha il freddo e la distanza delle stelle, quelle del cielo.
Bruce Wagner, lo sceneggiatore, nel presentare lo script a David Cronenberg, più di dieci anni fa, non può non aver pensato al suo microcosmo hollywoodiano come a una dilatazione polifonica del delirio di Spider. E’ a quest’ultimo, infatti, più che al precedente verboso Cosmopolis e, ancor meno, agli insulsi o anonimi lavori precedenti, che questa pellicola, mi correggo, questo 'file', si riallaccia, ritrovando quella vena narrativa tetra ma originale che aveva fatto del film con Ralph Fiennes un esperimento interessante.
Certo, qualche anno è passato e il regista canadese ha perso da un pezzo, ormai, quella capacità di incidere le piaghe della psiche che rendevano i suoi lavori unici e disturbanti. Superata la settantina, della ferocia necrofila e visionaria della giovinezza, sembra non restare che l'inane brontolio del pensionato inacidito. I tentativi di creare inquietudine accentando, col crescendo musicale, i momenti più 'forti', sono così espliciti da fare tristezza. La sua mano sembra più carezzare la scrittura che non piegarla al proprio comando. Le immagini sono prive di forza, come in una rissa sognata.

Rimane comunque uno sguardo d'insieme coerente, personale che, a dispetto di un minutaggio eccessivo e di parecchie sfilacciature nella trama, fanno di Maps to the Stars un mastello di neri pop corn amari e adulti, poco adatto agli stomaci pigri e addomesticati del pubblico perennemente adolescente ed esistenzialmente immacolato che popola le multisala.

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