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47 ronin - Recensione

La macchina dei sogni hollywoodiana tenta invano di normalizzare in chiave blockbuster una storia vera di vendetta, onore e sangue che ha profonde radici in una cultura incomprensibile e indigeribile per gli occidentali, più dei popcorn al teflon dei multisala

“Tutto cominciò con un ragazzo...”.
Ennò!
Non cominciò con un ragazzo.
Non avrebbe mai potuto cominciare così la vera storia dei 47 Ronin…
Chissenefrega. Questa è Hollywood, mica Giappone. Si prende un divo in declino (un po' musone da quando ha capito di essere l'Eletto solo nella fiction), qualche improbabile mostro in digitale, si fiabizza, nello splendore eterno e decerebrato del fantasy, un periodo storico di soli tre secoli fa ed ecco pronta la versione yankee di uno degli eventi storico-simbolici più impressionanti e significativi del Sol Levante e non solo.
Il ragazzo è Kai, un mezzosangue, mezzo demone o mezzo occidentale, che da grande avrà la faccia di Keanu Reeves. Lord Asano, signore di Ako, lo trova svenuto nel bosco e lo prende sotto la sua protezione mentre la di lui figlia Mika se ne innamora, nonostante la differenza di rango. Un brutto giorno, per le perfide trame di Lord Kira e della strega che lo assiste, Asano attenta alla vita di Kira, che è suo ospite, di fronte allo Shogun (un’autorità superiore). Lo Shogun lo condanna al seppuku (suicidio rituale) per riparare l'offesa al cerimoniale. Asano si sottomette ma il capo dei suoi samurai, Ôishi, diventato così ronin (ossia samurai senza padrone) e scacciato con i suoi fedeli accoliti, medita la vendetta nei confronti di Kira, nonostante la proibizione dello Shogun. L'impresa riuscirà ma i ronin, in conflitto d'onore tra il vendicare il loro signore e l'obbedienza all’autorità superiore, si daranno la morte rituale per essere poi rispettosamente sepolti a fianco di Lord Asano.
Ma il mezzosangue che c'entra? Niente, infatti. La Storia (quella vera) non lo menziona. L'eroe originario è Ôishi e gli sceneggiatori faticano non poco a tenere Aki in gioco e giustificarlo. Anche l'immaginaria storia d'amore con Mika non sboccia mai e muore 'in catena'. Essendo immaginario, a Keanu Reeves è affidato il compito di combattere i nemici immaginari (mostri e streghe) o di tenere contatti con popoli immaginari come i Tengu. Purtroppo per gli amanti del fantasy, però, la vera storia dei 47 Ronin, con il suo carico di sangue e morte, coscienza della caducità della vita e senso della stessa ricercato nell'onore e nel gesto estremo, priva l'operazione commerciale del suo sapore rassicurante e precotto. Inutilmente il sangue dei seppuku è tenuto fuori scena. La carica eversiva e folle, per una mentalità occidentale, di guerrieri che combattono sapendo che alla vittoria seguirà comunque una morte auto imposta, è fuori da ogni regola di genere.
L'onnivora fabbrica americana dei sogni cinematografici s’inceppa davanti a un gesto che ha la spiazzante profondità di un koan. Il film non decolla e, pur con qualche bella intuizione visiva, soffre di mancanza d’identità, sia estetica, sia narrativa, impedendo al doppio binario storico\fantasy di fondersi in un oggetto coerente e credibile e, quindi, coinvolgente.
Si è parlato di problemi realizzativi, riscritture della sceneggiatura, rimaneggiamenti della produzione sul prodotto finale, ma è l'idea iniziale a fallire: quella di inserire un eroe individualista e in cerca di riscatto, all’interno di un contesto culturale che ricerca la perfezione nella conformità e nell’adesione anonima alla tradizione.

Non tutto può cominciare con un ragazzo. A volte inizia con un’entità collettiva, una casta, una visione del mondo.
Non sempre il lieto fine è sinonimo di vita che sconfigge la morte. Anche il bel morire lo può essere.
Ma non a Hollywood.

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