The Grey
- Scritto da Luisa Seccamani
- Pubblicato in Film in sala
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Siamo in terra d'Alaska per ’un lavoro ai confini del mondo’, come annuncia la voce off dell'incipit; tra gli impianti di perforazione dell'oleodotto c'è un locale (quasi saloon western) zeppo di ceffi rissosi e, al bancone, un uomo solo che beve: è John Ottway, triste cacciatore di lupi al soldo delle compagnie petrolifere, uno con poca voglia di vivere, ché sua moglie (in flashback) lo ha lasciato. Esce per farla finita, ma un ululato lo fa, temporaneamente, desistere. Così parte, insieme ad una sbandata marmaglia di operai, per raggiungere l’ennesima stazione petrolifera, imbarcandosi su un aereo che, di lì a poco, si schianterà in una landa ghiacciata. Si salveranno in sette. A seguire sarà corpo a corpo ferino tra il drappello di sopravvissuti e gli unici abitanti di quel nulla bianco, ovvero un branco di lupi giustamente incazzati dall'invasione di campo.
Imprese, a dir poco, rocambolesche – con due belle sequenze adrenaliniche (l’incidente aereo e la fune tesa sul vuoto) –, liti, confessioni, ricordi davanti a falò di fortuna e, in chiusura, un fulmineo duello tra capibranco (i cosidetti 'maschi Alfa'). Il cast è a perdere, ovviamente, ché sfido chiunque a trovare un solo film d'azione/avventura in cui un gruppo giunga senza perdita alcuna sulla parola 'fine'.
Tanti lupastri, quindi, in questo film, belli, grassi ed agguerriti, ma il vero lupo da combattere è quello dentro – esplicativa in tal senso la facciona licantropa del protagonista che campeggia sulle locandine –, perché la bestia feroce che bracca stretto John Ottway si aggira tra i ghiacci del cuore e sanguina tormento, disperazione, dolore; allo stesso modo, l’istinto che lo porta a lottare per salvarsi la pelle è anche ricerca sofferta di un senso alla morte, alla vita, al respiro, magari stanando con rabbia un dio-coniglio da dietro le nuvole.
The Grey vive fisicamente di lui, Liam Neeson, della sua sentita interpretazione, complici anche tristi corrispondenze con il proprio passato (la moglie Natasha Richardson, figlia di Vanessa Redgrave e del regista Tony Richardson, morì dopo un banale un incidente sciistico) e del gelo esistenziale esaltato dall'ottima fotografia di Masanobu Takayanagi.
Peccato per i continui flashback malickian-familiari – un novanta per cento in meno avrebbe di gran lunga giovato all'essenzialità della pellicola –, per un non so che di eccessivamente lagnoso che, tirando le somme, si sente e, forse, per una certa fretta nel delineare i personaggi comprimari, meritevoli di un maggior chiaroscuro. Ma tant'è.
Joe Carnahan, il regista, ha scelto così, ergo piglio l'intero pacchetto e smorzo, in calce, un po’ di quel lucore stellare che avrei voluto raggiasse di più.
Attenzione! Alla fine del film, non schizzate via dalla sala per guadagnare l'uscita: dopo l’ultimo titolo di coda c’è, giusto per tre (!) secondi, un'istantanea (e pelosa) sequenza risolutiva.