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Loin des hommes - Recensione (Venezia 71 - In concorso)

La nuova pellicola di David Oelhoffen propone Viggo Mortensen nei panni di un maestro elementare di lingua franco-araba. Sulla scena è affiancato da un giovane fuggiasco e un terzo protagonista in grado di mostrare la vera Algeria degli anni Cinquanta

L'elemento cinematografico che rende affascinante e convincente Loin des hommes è il paesaggio dei monti dell'Atlante in Algeria. Questo vasto nulla è insidioso, pericoloso, sconfinato e suggestivo. La dura terra, arsa dal sole e inframezzata da rocciose montagne, può donare rapide speranze, creare situazioni tragiche e sprofondare i due protagonisti in situazioni senza ritorno. Questi sono Daru (Viggo Mortensen), maestro di una sperduta scuola elementare che è costretto dalla vita e dal suo istinto a scortare fuori dal pericolo il giovane Mohamed (Reda Kateb), un abitante di un villaggio accusato di omicidio. Scappano ma sono bersagliati da cavalieri in cerca di giustizia, coloni vendicatori, eserciti clandestini e miliziani francesi, tutti desiderosi di sfogare la loro rabbia e la loro violenza. La libertà è la meta finale, ma come tutti i viaggi, sarà raggiunta solo alla fine di una crescita emotiva personale dei due personaggi.
Lo spirito di sopravvivenza, dunque, governa le azioni dei due uomini in un'Algeria che assomiglia più al Far West. Oltre che per l'ambientazione, il regista utilizza altri elementi per prefigurare il contesto: l'anarchia governativa, la legge del più forte, la violenza sommaria e prepotente e la sottomissione del più debole. Il tutto, inoltre, fa presagire alla polveriera in cui si sta trasformando l'Algeria nel 1954, poco prima dell'imminente scoppio della guerra.In questa terra, infatti, governano diversi sistemi di diritto, civiltà in evidente antitesi che si combattono e si distruggono, mostrate dal regista nei diversi e belligeranti gruppi armati che i due protagonsti incontrano nel loro cammino a cui sono in grado di sfuggire solo attraverso l'istinto e il desiderio di vita.
Daru, così, apre finalmente gli occhi sul mondo in cui è cresciuto, e si rende conto della deriva violenta e insensata che sta attraversando il suo Paese. L'uomo cresce e si evolve, fino a comprendere una nuova volontà di vivere, un bisogno di tornare al mondo che riesca a fronteggiare questo stato di cose. Lo spigoloso e polverso paesaggio dei monti Atlas nelle intenzioni del regista diviene così, il terzo protagonista, conferendo un forte spessore narrativo alla pellicola. Il paesaggio non inquadra, ma propone il nuovo status sociale e storico dell'Algeria.

David Oelhoffen firma, dunque, una pellicola in cui la storia, l'uomo e le sue speranze si intrecciano e si validano vicendevolmente per conferire a una storia locale un valore universale.

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