Las ninas Quispe - Recensione (Venezia 70 - Settimana della Critica)
- Scritto da Fabio Canessa
- Pubblicato in Film fuori sala
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Cile, 1974. Le sorelle Justa, Lucia e Luciana Quispe conducono una vita solitaria sull’altopiano del paese sudamericano allevando capre. Alla recente morta della quarta sorella si aggiunge la notizia di una nuova legge che potrebbe stravolgere il loro stile di vita: una situazione che le porterà a mettere in discussione la loro stessa esistenza.
Nel vasto panorama del cinema sudamericano, il Cile rappresenta una delle realtà più vitali. Se Pablo Larrain, qua a Venezia tra i membri nella giuria del Concorso, costituisce la punta di diamante della produzione cilena degli ultimi anni, dietro al regista di Tony Manero, Post Mortem, NO - I giorni dell'arcobaleno sembra essersi sviluppato un movimento di sicuro interesse. Las ninas Quispe, opera prima di Sebastian Sepulveda, si inserisce in questo filone (la produzione tra l’altro è targata Larrain).
Basato su una storia vera, il film documenta un modo di vita di un mondo primitivo arrivato sino a oggi, o almeno sino a ieri. I gesti millenari dei pastori, qui al femminile: mungere gli animali, preparare il formaggio, raccogliere la legna. Storie minime di vite che rappresentano residui di un mondo in fase di disintegrazione, nel Cile appena entrato nella fase della lunga dittatura di Pinochet. A ricordarla nel film, oltre al riferimento temporale, come detto il 1974, c’è un passaggio che vede protagonista il sempre bravo Alfredo Castro (attore feticcio di Larrain). Un uomo in fuga dal Cile, direzione Argentina, che incontra le sorelle nell’altopiano così poco ospitale, solitario eppure sentito come la sola casa possibile, unico luogo dove loro possono vivere. Un’identità legata al territorio, a un’attività ancestrale come quella della pastorizia. Solo la sorella minore sembra sognare, pensare magari a qualcosa di diverso. Il finale tragico riguarderà però anche lei.
Uno stile asciutto, con la totale assenza di musica che lascia spazio al suono del vento che soffia nell’altopiano cileno. Il rischio della noia è presente, ma nel complesso ci si trova di fronte a una discreta opera prima dal sapore antropologico.