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Eastern Boys - Recensione (Venezia 70 - Orizzonti)

Il rapporto contrastato tra Daniel, borghese di mezz’età, e Marek, ragazzino dell’Est che vive di espedienti ai margini della clandestinità, offre l’occasione per un ritratto di nuovi contrasti sociali, ma a mantenere vivo il film sopra la superficie del didascalico sono le incursioni della tensione quando la scena è presa dall’imprevedibile leader della banda di ragazzi dell’Est di cui Marek fa parte, Boss

Un gruppo di ragazzi dell’Est europeo bazzica nei dintorni della Gare du Nord, a Parigi, con un fare tra il perdigiorno e il sottilmente losco. Un benvestito signore sulla quarantina si aggira per la stessa stazione ferroviaria, tra lo sperduto e il curioso. Il passaggio di un gruppetto di poliziotti fa disperdere i ragazzi dell’Est e uno di loro, Marek, finisce a nascondersi in un sottoscala, dove incontra il benvestito signore, Daniel. Per quest’ultimo è come un’epifania di bellezza giovanile con la promessa di una passione a buon mercato; i due si accordano sulla cifra di 50 euro e si danno appuntamento a casa di Daniel.
Chiuso il preambolo, la storia entra nel vivo quando il campanello di casa di Daniel suona all’ora convenuta, ma invece di Marek l'uomo si ritrova davanti la banda dell’Est al gran completo, e finisce ostaggio nel suo stesso appartamento di un party improvvisato in cui a fare la parte del mattatore è il capetto della banda, nominato solo come Boss. Durante il party, sotto gli occhi tra l'allibito e l'impaurito di Daniel, la casa finisce svaligiata di tutto, dai mobili alle suppellettili, e tra i beffardi svaligiatori fa capolino anche lo stesso Marek. Sarà di nuovo il campanello di casa di Daniel a suonare per dare il la al successivo atto della storia, ma stavolta dietro la porta c’è proprio il solo Marek, forse in cerca di soldi o forse un po’ vittima del senso di colpa di aver trascinato Daniel nell’imbroglio della sua vita. Il rapporto tra i due (ri)parte da lì, ma l’ombra della banda e del suo leader Boss rimangono minacciose, e il peso del passato di Marek, orfano di Cecenia, non è da meno.
In parte romanzo di formazione, in parte film di denuncia sociale, in parte storia romantica di un rapporto e della sua evoluzione (im)prevista, con nel finale anche un pizzico di thrilling e di azione, Eastern Boys ha nel suo andamento e nello stile ondivago sia le sue croci che le sue delizie: se l’idillio dell’amore tra il ragazzino e il benestante borghese si piazza sul crinale dello stucchevole con le sue musiche soft e i suoi sguardi persi occhi negli occhi, la tensione ingenerata nelle scene in cui compare il personaggio di Boss, un Danil Vorobyev praticamente nato per questa parte in cui infonde vita e subdolo carisma da schermo, tiene fermi i sederi degli spettatori sulle sedie e arzilla la loro attenzione perché si ha l’impressione che possa succedere di tutto, ad ogni cambio di battuta. Ed è proprio la figura di Boss, la sua imprevedibilità, a impreziosire e innalzare sopra la media del già-visto-per-un-film-impegnato-francese l’altrimenti un po’ bolsa ma edificante – il finale ci aggiungerà del suo, in aggiunta alla didascalica parte centrale romantica - vicenda di Daniel e Marek.

Premiato come miglior film della sezione Orizzonti all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, il film porta sotto i riflettori il nome di Robin Campillo, sinora più noto per le collaborazioni con Laurent Cantet che come regista in proprio, in veste di nuovo esponente di un cinema francese di interpretazione della realtà e di lettura (seppur di parte, ahinoi) della complessità del sociale. Segnino sul taccuino il suo nome coloro che sono affascinati da quel tipo/genere/tono di cinema, ché chi scrive si accontenterà di segnarsi il nome di Danil Vorobyev. A ognuno il suo.

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