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Compliance (Torino Film Festival 2012 - Rapporto confidenziale)

Una scena da ComplianceL'orrore dell'omologazione, la banalità del male, l'educazione alla cecità: Compliance prende la materia del film politico, ne fa un horror psicologico senza sangue e la trapianta nel tessuto socio-economico della provincia americana, tra catene di fast food, bibite gassate e una sessione di tortura telefonica che dura 90, tesissimi, minuti

Compliance è un film dell’orrore; non perché mostri violenza fisica o sangue, ma perché genera paura in chi lo subisce. E poco cambia se questa paura viene esorcizzata attraverso il meccanismo della negazione conscia della possibilità che quanto descritto possa accadere anche a noi stessi, che rispetto ai personaggi della storia siamo/ci sentiamo superiori, meno stupidi e/o sprovveduti (condita da qualche risatina liberatoria), poiché nel retro della capoccia nasce dopo pochissimo il sospetto che forse, se capitasse anche a noi… chissà…
Compliance è anche un thriller, che instilla sin dal principio un’angoscia sottile, una sensazione di pericolo, e la mantiene viva attraverso una tensione creata con cura e che non sconfina mai nel palese, nel visibile, ma rimane sotterranea e quindi anche più efficace. La storia del venerdì in cui, in un anonimo fast food della provincia americana, la responsabile indaffaratissima viene messa ulteriormente sotto pressione dalla telefonata di un sedicente poliziotto che le chiede di trattenere una sua impiegata, accusata di furto, si tramuta ben presto in un’escalation psicologica in cui la voce, l’autorità e il suo potere torturante mettono a nudo le debolezze di un sistema civile basato sull’incapacità/impossibilità di dire di no a una figura che si fa percepire come superiore. E’ la banalità del male è quello che sconvolge le coscienze, più che le parole e i fatti che Compliance racconta (più anche del "basato su fatti realmente accaduti" che in sovrimpressione accompagna le prime immagini), quel concetto così ben messo in scena dal cinema di lingua tedesca (che per questi argomenti ha per forza di cose una spiccata sensibilità, diretta), e il film di Craig Zobel si auto-dipinge (in maniera non dichiarata, ma calzante) come un Das Experiment radicato nel tessuto socio-economico americano, o come un Nastro bianco di ambientazione contemporanea, condito dagli odori di pollo fritto e dal dolciastro sapore delle bibite gassate che si consumano nei fast food a stelle e strisce.
Punto di forza del film è la bravura del regista nel veicolare con efficacia la tensione e guidarla per mezzo dell’atmosfera mai pelosa, capace di mostrare oltre il lecito del sopportabile ma anche di celare quando necessario l’atrocità delle conseguenze di un groppo di torsioni psicologiche e stati della mente alterata: una regia chiara e puntuale, capace di gestire gli spazi ristretti di un set che non cambia mai (l’interno del fast food), che usa il fuoricampo come strumento, le musiche come evidenziatore e gli stacchi in natura morta sul contesto ambientale in cui si svolge il racconto (i clienti mangianti e beventi, i parcheggi vuoti, gli edifici commerciali isolati e quasi abbandonati) come arma a doppio taglio, e che anche quando pare indugiare un po’ troppo su un particolare, ci metti un momento ad accorgerti che quel tempo speso a mostrare un’azione ha un motivo ben preciso e a volte impressionante (come il tragitto in auto dal commissariato al fast food seguito secondo per secondo, nel pre-finale).

Poche volte di recente si è avuta l’occasione di assistere ad un film di questa provenienza, indipendente o meno, capace di affrontare un argomento politico molto forte con una mano così ferma. E già solo per questo, la visione di Compliance diventa quasi obbligatoria per capire cosa ci perdiamo tutte le volte che ci abbandoniamo al flusso del cinema di mindless entertainment (o della serialità televisiva tutta personaggi e storie scritte bene, soprattutto per far durare di più gli abbonamenti ai canali via cavo) credendolo l’unico possibile. Il resto, rimane da giudicare allo spettatore che si cimenta di fronte a questo film, lasciando fare ai neuroni il loro mestiere; per una volta.

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