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Manglehorn - Recensione (Venezia 71 - In concorso)

David Gordon Green si allontana dalle atmosfere noir di Joe: con Manglehorn firma un ritratto esistenziale cucito su misura di Al Pacino, alla prese con un personaggio in crisi che non sa cosa fare della propria vita. Non basta però la presenza dell'attorre a smuovere le acque staganti in cui si muove il film

Al Pacino è uno di quegli attori che possono fare la fortuna o la sfortuna di un film. Il suo talento indiscusso rappresenta una marcia in più per i registi, non c'è dubbio, ma la sua presenza scenica può risultare a volte fin troppo ingombrante. Croce e delizia, calamita su di sè tutte le attenzioni della macchina da presa, tanto che in alcuni casi si ha la sensazione che i film siano modellati su di lui anziché il contrario. Del resto quale regista potrebbe tener testa ad una leggenda del cinema come lui?
Nel caso di Manglehorn (in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2014), il nuovo film di David Gordon Green, Al Pacino può fare ben poco in una storia che scorre via senza lasciare traccia. Padrone assoluto della scena (il suo carisma pervade ogni sequenza), Al interpreta un uomo ormai avanti con gli anni, un fabbro arrivato ad un punto della sua esistenza che non sa cosa fare della propria vita. Trascorre le giornate rimpiangendo una vecchia fiamma a cui scrive lettere che non ricevono mai una risposta, e preferisce la compagnia del suo gatto a quella di altre persone. Solo e disorientato, non riesce a lasciarsi alle spalle la nostalgia per aver perso l'amore della sua vita. Le cose cambiano quando una donna, che condivide con lui la passione per gli animali domestici, mostra un interesse nei suoi confronti. Voltare pagina o continuare ad odiare il mondo: questa la scelta che dovrà compiere l'uomo.
Dopo il noir violento Joe, Gordon Green cambia registro e dipinge sullo schermo un ritratto esistenziale di un uomo nella maturità degli anni che paga le scelte sbagliate della sua vita. Succede poco o nulla lungo i 97 minuti del film: scarse le emozioni, blando il ritmo, inefficace il gigionismo a cui ormai Al Pacino pare non riuscire a sottrarsi. Certo, l'interprete de Il Padrino è sempre un gigante capace di regalarci alcuni momenti d'intensità straordinaria. Che però non bastano per fare un buon film. La macchina da presa di Gordon Green sembra più innamorata del suo attore principale piuttosto che del personaggio che interpreta. Quello che ne viene fuori è la storia povera pathos di una normale routine quotidiana di un vecchio pieno di cicatrici nell'anima.   

E così lungo i 97 minuti del film restiamo distanti delle emozioni vissute dal protagonista: il set diventa un grande acquario in cui al posto dei pesci ci sono personaggi in carne ed ossa le cui azioni restano confinate nella cornice dello schermo.

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