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Simon Rumley, il dolore che genera l'orrore

Anatomia di Simon Rumley, regista e sceneggiatore britannico il cui cinema è una lenta, violenta ed attenta visione del dolore come radice di ogni terrore

A Simon Rumley piace sperimentare. E' un regista pieno di idee, cosciente ed al tempo stesso visionario, forte di un talento o, forse, di un orgoglio che gli impedisce di scendere sotto una base minima di qualità. Lo riconosci tra i tanti. Non importa che nel cinema sia già stato fatto di tutto: lui non copia, prende il setaccio, entra a piedi nudi nel fiume centenario di celluloide, filtra, riscopre e sceglie con gusto punk. Il barbuto regista britannico è uno che studia e sa dove pescare.
E' certamente un timido, uno che prende il suo tempo nascondendosi dietro a mille collaborazioni, cortometraggi, cameo, radiodrammi e comparsate da regista (Laughter [1993], Phew [1994], The Handyman [2006], British & Proud [2010], 60 Seconds of Solitude in Year Zero [2011]). Uno che in vent'anni di carriera e lunga gavetta in cui si è cimentato nei generi più disparati (Strong Language [2000], The Truth Game [2001], Club Le Monde [2002]) è riuscito a fare breccia con un grande film: The Living and the Dead, un dramma aristocratico familiare che si sublima nell'orrore innocente.
Come nelle belle favole, finalmente è arrivata la popolarità internazionale e, allora, perché non riprovarci con gli stessi ingredienti, quattro anni più tardi, con la sua opera più compiuta e meno difettosa, quel Red White & Blue che lo consacra e sposa in pieno il suo cavallo di battaglia? Quello che fa sembrare i soliti 'horror usa e getta' solo delle macchiette fotocopiate da matrici troppo ingiallite?
Il genio di Rumley, alla fine, è una cosa sola: la lenta, violenta ed attenta visione del dolore come radice di ogni terrore.
In sintesi, due film importanti, in vent'anni, e due (poche ma, tutto sommato, 'troppe' vista la loro generale mediocrità) sospettose collaborazioni popolarissime: Little Deaths (2010) e The ABCs of Death (2012). Tutto in attesa della prova del nove, nel 2015, con The Last Word. E' ora di uscire di nuovo allo scoperto.

Per capire velocemente quanto The Living and the Dead abbia inciso nella carriera di Rumley e, più in generale, nella sua evoluzione, basta fare il confronto tra uno dei suoi primi cortometraggi e quello immediatamente successivo al film della svolta.
Laughter (1994) è visionabile gratuitamente nel sito dello stesso regista: immagini ad alta velocità, traballanti e ricche di detriti (un po' alla Tsukamoto), bianco e nero, 4:3, super 8, camera a spalla, quasi nessun dialogo: scene d'ordinaria ricerca d'identità già viste. Troppi spunti presi in prestito. D'istinto verrebbe da sbottare che simili tentativi avrebbero tranquillamente potuto restarsene nel cassetto della scrivania della sua cameretta con la moquette ma, se si pensa che nello stesso periodo iniziale, fertile e sperimentale, ci sono registi che partoriscono ed hanno il coraggio di presentare alla Mostra del Cinema di Venezia cortometraggi come La Sala di Alessio Giannone (la cui grandezza credo si debba cercare, non trovandola in mezzo a tanta mediocrità, nell'aver messo in piedi il progetto partendo da uno script ad opera di detenuti baresi), allora si capisce perché Rumley si e tanti, tantissimi altri, no. Non importa che genere si faccia o che tipo di specialista si diventi, il talento è innato e traspare sempre, che lo si voglia o meno.
The Handyman (2006) è il corto che ha girato tra i due grandi film di cui sopra. E' praticamente un regalo di Natale del regista, un film-gioco che ha belle frecce da scagliare. Riesce a sembrare scontato, poi originale e alla fine compiuto e maturo, con divertente colpo di scena finale.
L'immagine è solida e ferma, non ha fretta, non arriva più l'idea di un animo che ha urgenza di tirare testate al muro, per ferirsi, vomitare sangue in faccia ai presenti e vedere l'effetto che fa. Rassicura: il regista sa chi è e sa cosa vuole. Sa come usare gli strumenti che ha selezionato negli anni. Ha soprattutto il buon gusto di sapersi prendere terribilmente sul serio: è conscio delle proprie capacità ma, al tempo stesso, ha la saggezza di capire che l'autoironia non può che essere la chiave per l'equilibrio.
E' nato un regista.

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