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Far East Film Festival 2019: intervista ad Anthony Wong

Il grande attore di Hong Kong ripercorre la sua carriera celebrata a Udine con il Gelso d'Oro per meriti artistici: dall’esordio a metà degli anni Ottanta con My Name Ain’t Suzie a Still Human, trionfatore del Far East Film Festival 2019

Una leggenda del cinema di Hong Kong. Con una filmografia lunghissima, oltre duecento apparizioni sul grande schermo, ricca di personaggi indimenticabili. Di capolavori come, per citarne solo uno, Exiled di Johnnie To al quale confessa di essere particolarmente legato rispondendo alla domanda sul film che ricorda con più piacere. Dopo averci pensato un po’. D’altronde la scelta è difficile considerando la sua grande carriera racchiusa nei due titoli presentati a Udine. My Name Ain’t Suzie di Angie Chan, l’esordio a metà degli anni Ottanta, e Still Human di Oliver Chan, il suo lavoro più recente che ha trionfato al Far East Film Festival 2019 con il premio del pubblico e quello della critica assegnato dagli accreditati Black Dragon. Riconoscimenti da aggiungere al Gelso d’Oro alla carriera. È stato il FEFF di Anthony Wong (da segnalare anche la sua piccola ma gustosa partecipazione in un altro film della selezione, A Home with a View di Herman Yau), tornato a Udine esattamente dopo vent’anni. Nel 1999, era la primissima edizione del festival, aveva presentato Beast Cops di Gordon Chan e Dante Lam. Un grande esempio del cinema action hongkonghese di cui è un simbolo. Ma l’attore nel corso della sua vita professionale ha interpretato qualunque ruolo e spaziato in ogni genere. Una versatilità dimostrata ancora una volta con il lavoro fatto in Still Human dove recita seduto su una sedia a rotelle perché il personaggio a cui dà il volto è un uomo paralizzato dal torace in giù in seguito a un incidente sul lavoro. Scorbutico, chiuso in se stesso, diventerà una persona diversa grazie al rapporto di affetto con la badante filippina interpretata dalla splendida Crisel Consunji. Lui, Anthony Wong, si dimostra tutt’altro che scortese. Disponibile con tutti, si racconta con generosità e tanta ironia.

Partiamo dagli inizi, dal suo esordio con My Name Ain’t Suzie. Come entrò a far parte del film di Angie Chan?
Devo scavare nella memoria. Avevo fatto già qualcosa per la televisione e ricordo di aver letto un’inserzione sul giornale riguardante la ricerca di un attore con certe caratteristiche. Grazie a un amico che conosceva l’assistente alla regia partecipai così al provino. C’erano molti contendenti, anche un attore famoso, e non avevo grandi speranze. Dopo il provino dovetti aspettare diverso tempo per una risposta, scoprii in seguito che la produzione non era convinta di me. L’unica ad aver apprezzato la mia audizione era la regista e alla fine, grazie a lei, mi chiamarono per fare il film.

Come ricorda, invece, l’esperienza sul set?
Ero intimorito. Non avevo esperienza e c’erano molto occidentali a fare i marinai, parlavano inglese e io non lo conoscevo. Ho anche dato il mio primo bacio sullo schermo.

Con il personaggio aveva qualcosa in comune. Questo l’aiutò a entrare nella parte?
Sì, era un meticcio come me. Figlio di un marinaio, abbandonato dal padre. E io sono figlio di un inglese che non ho mai incontrato. Ho continuato tutta la vita a cercare la famiglia di mio padre e di recente l’ho trovata. Si era trasferito in Australia, ho visitato la sua tomba e visto i miei fratelli.  

Subito dopo il film come proseguì la sua carriera?
Quell’esperienza mi ha insegnato tanto e mi ha fatto capire che non sapevo recitare. Credo che Angie mi avesse scelto proprio per quel motivo. Mi sono così messo a studiare, ho fatto l’Accademia di Arti Drammatiche per poi affrontare questo mestiere con un’altra consapevolezza.

Che effetto le fa oggi rivedersi sullo schermo?
Ero molto bello e oggi fatico a guardarmi allo specchio! Onestamente non è facile affrontare il passato. Il tempo vola e quello che ho imparato è che dobbiamo apprezzare il presente, il momento in cui viviamo, perché si trasforma subito in passato.

Come il suo primo film, anche il più recente, Still Human, è diretto da una donna. Dal suo punto di vista di attore, è diverso l’approccio alla regia femminile rispetto a quello maschile?
Sicuramente. Le registe hanno una maggiore sensibilità, gli uomini sono più rigidi.

Per esempio, ci dica com’è Johnnie To con il quale ha lavorato più volte. Lascia spazio agli interpreti di improvvisare?
Assolutamente no. È duro, urla. Bisogna fare quello che dice lui, non si può improvvisare con Johnnie To. Se ci provi rischi che ti uccida!

Ma torniamo a Still Human, cosa l’ha convinta ad accettare il progetto di Oliver Chan?
Mi è piaciuta subito la storia che voleva raccontare. Hong Kong è una città internazionale, ma mancano storie che parlano di persone appartenenti ad altre comunità che ci vivono. C’era bisogno di un film con un personaggio principale originario delle Filippine o dell’India e quando ho ricevuto la sceneggiatura e visto che la co-protagonista era filippina ho accettato con entusiasmo. Spero che Still Human apra la strada ad altri progetti simili.

Un’opera prima, a tal proposito cosa ne pensa del supporto a Hong Kong per i giovani registi?
Prima di tutto vorrei dire che mi è sembrato di lavorare con professionisti navigati. Sia per quando riguarda Oliver come regista sia per Crisel come attrice. Sul supporto ai nuovi talenti, ho parlato con le autorità per dire che tre milioni di dollari di Hong Kong per l’iniziativa First Feature Film Initiative (il finanziamento vinto dalla regista) è una miseria, che non si può fare un film decente così, a meno che tutti non accettino di lavorare gratis. Ora lo hanno alzato a 5 milioni. Sappiamo tutti che l’industria cinematografica di Hong Kong è cambiata molto rispetto al passato. Prima si producevano trecento film all’anno, ora una cinquantina. Fortunatamente una buona parte realizzati da giovani registi. Ammirevoli per passione e coraggio.

Com’è stato recitare non usando tutto il corpo perché nella parte di un disabile costretto sulla sedie a rotelle?
Facile, mi sono stancato di meno. Ero sempre seduto, muovevo solo la testa. La chiamiamo recitazione in stile britannico!

In che modo si è preparato per un ruolo così particolare?
Prima che mia madre morisse ha vissuto gli ultimi dieci anni della sua vita su una sedia a rotelle, in condizioni simili a quelle del personaggio del film. Prendendomi cura di lei ho conosciuto da vicino questa situazione, una familiarità che mi ha aiutato a capire alcune cose necessarie per il ruolo che dovevo interpretare. Per il modo di parlare del personaggio mi sono invece ispirato a un amico appartenente alla working class che si è sempre rifiutato di imparare l'inglese. Per il resto mi sono affidata alla regista che essendo anche sceneggiatrice aveva una visione molto chiara su tutto.
 
Still Human è anche un film sull’inseguire sempre i sogni. Lei cosa sogna ancora dopo una carriera ricca di soddisfazioni?
Prego ogni notte di ottenere un altro contratto, di lavorare di nuovo in Inghilterra!

Ma dopo aver fatto di tutto in oltre duecento film, quale altro ruolo vorrebbero interpretare?
Vorrei rifare tutti i ruoli di Andy Lau!

Di seguito la traduzione del discorso dell’attore per la cerimonia di consegna del Gelso d’Oro alla carriera:

Ho preparato un piccolo discorso. Sono così agitato...
È un grande onore per me accettare questo bellissimo premio per i meriti artistici, in questa bellissima città. Nonostante questo, non sono sicuro di quali siano i miei meriti. Dal mio primo film My Name Ain’t Suzie a Still Human, il film di quest’anno, non sono mai stato certo di essermi davvero meritato molto, nella mia carriera. Il mondo del cinema è come l’abisso profondo dell’Oceano, è misterioso e imprevedibile. È facile perdersi, e smarrire il senso del tempo. Se qualcuno mi avesse detto che prima o poi avrei ricevuto un premio per i meriti artistici, da qualche parte, in qualche momento, dall’altra parte del mondo, avrei desiderato che questo avvenisse in Italia. Non solo per il background artistico e culturale di questo Paese, ma anche per una questione di gusto. E, a parte questo, adoro la pasta. Comunque penso che questo premio sia arrivato un po’ troppo presto per me. Da quello che ho visto in giro in questi anni, questi premi di solito vengono dati ad artisti che sono arrivati alla soglia di una certa età. E io, invece, come potete notare, non ho bisogno degli occhiali da vista per leggere questo discorso. Ma è qualcosa che doveva succedere, e che succederà, e io lo accetto a braccia aperte. Vorrei ringraziarvi tutti per la vostra stima. Non mi sono mai definito un artista, piuttosto un praticante delle arti. Ma credo che approfitterò di tutto questo per pavoneggiarmi un po’ e vantarmi di aver ricevuto questo premio in Italia. Voglio ringraziare il Far East Film Festival di Udine per questo premio, e vorrei ringraziare uno per uno tutti quelli che mi hanno dato una mano in passato. Ma il tempo è essenziale, quindi non posso leggere a voce alta tutti i nomi della mia lista. In più, sono ancora giovane, perciò quando riceverò un premio alla carriera, mi prenderò tutto il tempo che mi serve per ringraziare tutti quanti.
Ancora una volta, grazie per questo premio.

* Alcuni passaggi dell’intervista sono ripresi dall’incontro con il pubblico



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