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Far East Film Festival 2020: intervista a Hirobumi Watanabe

Il regista indipendente Hirobumi Watanabe, al quale il Far East Film Festival ha dedicato un focus con quattro film, si racconta: la passione per il cinema, l’estetica del bianco e nero, le influenze giapponesi e quelle occidentali, gli elementi autobiografici nelle sue opere, la collaborazione con il fratello musicista

Per definizione dedicato al cinema popolare e di genere, il Far East Film Festival non manca di fare eccezioni. Anche nette, audaci, come ben dimostrano alcuni titoli nel programma di quest’anno e in particolare quelli del focus su Hirobumi Watanabe. Quattro film, realizzati negli ultimi anni, per un approfondimento sul cinema di uno dei più interessanti registi giapponesi indipendenti. Nato nel 1982 a Otawara, nella prefettura di Tochigi, Watanabe ha studiato letteratura giapponese e dopo la laurea è entrato alla Japan Academy of Moving Images fondata dal grande Shohei Imamura. Nel 2013, insieme al fratello compositore Yuji, ha creato la Foolish Piggies Films nella sua città natale. Le loro prime produzioni si sono fate notare al Tokyo International Film Festival e anche in altri festival, non solo in Giappone.

Dei quattro film proposti al FEFF, uno è stato presentato in prima mondiale: I’m Really Good che racconta la quotidianità di una bambina attraverso una sua giornata. Curioso notare come una scena del film sia presente in Cry, nel momento in cui l’allevatore di maiali protagonista va al cinema e si addormenta guardandolo. Un gioco che dimostra l’autoironia di Watanabe, ancora più evidente in Life Finds a Way dove interpreta un regista a corto di idee con il suo stesso nome. Geniali in questo film i suoi monologhi in macchina, di fianco a un impassibile compagno di viaggio come avviene in Party ‘round the Globe dove Watanabe ricopre il ruolo di un fan dei Beatles. Quattro film che mostrano una precisa, originale idea di cinema: antinarrativo, ripetitivo, in bianco e nero, condito da un umorismo eccentrico. Ne abbiamo parlato con lui durante un’intervista collettiva per la stampa organizzata sulla piattaforma Zoom.

Abbiamo visto, grazie al focus inserito nel programma del Far East, quattro suoi film: tutti in bianco e nero. Quali sono le ragioni di questa precisa scelta estetica?
Tutti i miei film sono in bianco e nero, sin dal primo lavoro. Il motivo iniziale è semplice e riguarda il basso budget a disposizione. Realizzare un film a colori sarebbe, infatti, più costoso. Lavoriamo in pochi, senza scenografi o tutte le altre figure di una normale produzione. Detto questo, mi piace il bianco e nero con le sue sfumature e trovo invece il colore troppo esplicativo. Con il tempo ho sviluppato un sempre maggiore interesse per le tecniche di monocromia e ormai questa scelta estetica è diventata una componente integrante del mio modo di fare cinema.

Cinema che porta il marchio della sua casa di produzione Foolish Piggies Films. Da dove arriva questo simpatico nome?
È nata nel 2013. Siamo io, mio fratello Yuji che si occupa della parte musicale dei film e il direttore della fotografia Bang Woohyun, un caro amico coreano che collabora con me sin dagli inizi. Il nome me l’ha consigliato o meglio imposto il mio maestro, lo sceneggiatore e regista Daisuke Tengan. Conoscendomi ha pensato fosse il nome adatto anche perché vengo da un posto di campagna come Otawara e sono grassottello (ride).

Daisuke Tengan è figlio di Shohei Imamura, fondatore della scuola di cinema nella quale si è formato. Il grande regista di film come Pigs and Battleships, per dirne uno dove torna il riferimento ai maiali, è un suo punto di riferimento?
Certamente, ammiro tantissimo Imamura e il suo cinema ha avuto grande influenza su di me. In particolare per l'umorismo. Molti suoi film hanno una forma da heavy comedy, sono presenti dei momenti di tristezza in cui si ride. Ho applicato questa lezione alla mia visione, proponendo una chiave comica a episodi particolari o quotidiani. Per questo ritengo i miei film siano delle commedie. L'umorismo è importante, fa parte dell'esistenza umana.

L'elemento divertente nei suoi film è rappresentato spesso dai personaggi che interpreta. Le assomigliano? Quanto porta di se stesso nelle storie che racconta?
Prima di iniziare a fare cinema ho studiato letteratura giapponese e mi hanno ispirato grandi scrittori come Natsume Soseki, Osamu Dazai, Kenzaburo Oe abituati a portare elementi autobiografici nelle loro opere. Però non è che ritragga me stesso, non faccio documentari su di me, ma lavori di finzione e non vorrei che venissero presi come film che raccontano la storia di Hirobumi Watanabe. Certo mi viene naturale inserire cose che fanno parte della mia vita.

In Life Finds a Way interpreta proprio un regista come lei, usando il suo vero nome.
Molte persone vedendo il film pensano che sia proprio io! In realtà è un gioco tra me e il personaggio, solo alcune cose che dice nei suoi monologhi riflettono il mio pensiero.

Il personaggio ha un blocco creativo mentre sta scrivendo una nuova sceneggiatura. Lei come cerca di superare quei momenti che ogni autore può conoscere?
Cerco di rimescolare costantemente la mia immaginazione e in questo può aiutare vedere film, ascoltare musica, andare in una galleria a vedere dei quadri, leggere un libro.

Un film come Life Finds a Way, su un regista in crisi creativa e in parte autobiografico, fa subito venire in mente 8 e 1/2. Ha pensato all'opera di Federico Fellini quando lo scriveva?
Adoro Fellini e ho rivisto 8 e 1/2 più volte durante la preparazione del mio film. Per esempio anche la presenza di tante figure femminili è un riferimento al suo capolavoro. Solo che il mio personaggio non sviluppa un rapporto sentimentale con le donne e loro sono quasi un ostacolo a quello che lui vorrebbe fare.

Oltre Fellini quali maestri del cinema italiano conosce e apprezza particolarmente?
Diversi registi italiani mi hanno influenzato profondamente. Oltre a Fellini, ammiro Pasolini, Antonioni, Visconti, Rossellini e se ho iniziato ad appassionarmi al cinema lo devo anche alla visione dei film di Sergio Leone. Inoltre mi piacciono tantissimo gli horror di Dario Argento. Anche mio fratello, come musicista, è stato ispirato da grandi compositori italiani come Nino Rota ed Ennio Morricone.

Ma quando è nata la sua passione per il cinema?
Sin da bambino è stata forte. Alle elementari il maestro mi diceva: “Smetti di guardare film e studia di più!”. Il problema è che nella nostra città, Otawara, non c’è un cinema da quando io e mio fratello eravamo piccoli. Andavamo in una città vicina, Utsunomiya. Poi studiando a Tokyo ho potuto entrare maggiormente in contatto anche con il cinema italiano. Ricordo in particolare una monografica su Pasolini che mi impressionò tantissimo.  

Qualcuno l’ha però paragonata a un regista americano: Jim Jarmusch. Per lo stile e i dialoghi, tra il surreale e il comico, soprattutto dei suoi primi film.
Sì, Jarmusch mi ha sicuramente ispirato. Ma insieme a lui anche altri autori americani come Woody Allen e il finlandese Aki Kaurismaki.

Ha parlato di suo fratello Yuji, come lavora con lui?
Andiamo molto d’accordo, guardiamo e facciamo film insieme. Gli parlo sempre dei miei progetti e discutiamo a fondo su come utilizzare al meglio la musica sulle immagini che giriamo. A volte la colonna sonora nasce prima, altre arriva dopo la fine delle riprese.

In Party 'round the Globe colpiscono le sonorità della band Triple Fire.
Abbiamo pensato fosse interessante creare un contrappunto tra la loro musica aggressiva e quella più tranquilla al quale si è dedicato mio fratello.

Il personaggio che interpreta è un grande fan dei Beatles. Lo è anche lei nella realtà?
Assolutamente sì. Lo sono io, mio fratello e anche Gaku Imamura che è il protagonista silenzioso del film. Tutti adoriamo i Beatles.

Oltre alla musica prestate grande attenzione al sonoro in generale. In particolare risulta decisivo in Cry, privo di dialoghi ma accompagnato dal grugnito dei maiali e dal rumore del vento.
Sì, abbiamo utilizzato molto 'rumore' appositamente. Ci siamo chiesti quale potesse essere la reazione dello spettatore perché nel cinema è normale tagliare i rumori di sottofondo. Ma chi lo ha deciso per me? Ci sono delle regole che si devono conoscere, però si possono anche non seguire. A volte lascio un cameraman che si riflette in un vetro o qualcuno che guarda in camera. Se decido di usare queste immagini per una scena, per me va bene.

In questo senso lascia spazio molto all’improvvisazione durante le riprese rispetto al lavoro di scrittura?
La lunghezza delle riprese non la scrivo in sceneggiatura. È una decisione che arriva in un secondo momento, quando mi interfaccio con il direttore della fotografia e poi si va nella location. A volte capita vengano delle idee sul posto, anche solo riprendere delle nuvole perché hanno una forma particolare che mi piace. In generale prediligo long take anche per dare maggiore importanza all’interpretazione, la giusta attenzione alla recitazione che si perde se si continua a spezzettare le scene.

E agli interpreti lascia delle libertà?
Dipende dal film. Nella sceneggiatura c’è sempre tutto lo scorrimento, ma per esempio se ci sono bambini dico semplicemente loro di avere una conversazione intorno a un particolare tema e li lascio liberi di parlare e di muoversi come vogliono. Per ottenere delle scene molto naturali.

Una bambina è la bravissima protagonista del suo nuovo film I’m Really Good, presentato in prima mondiale al Far East film Festival.
Si chiama Riko. È una ragazzina davvero interessante, libera, piena di energia e molto naturale. All’inizio non si fidava tanto di me, poi parlandoci e giocando insieme si è creata un’amicizia nonostante la differenza di età. Era già stata presente in altri miei film e dopo quelle prime esperienze mi ha detto: “Ora basta, non voglio più fare la comparsa o un personaggio secondario. Voglio diventare una protagonista”. Ho seguito questa sua aspirazione ed è così finita al centro di I’m Really Good dove si è dimostrata molto brava.

Un altro film, come gli altri, girato in un contesto di provincia. Nella sua Otawara.
Otawara è una città di meno di 80mila abitanti. Quando ho iniziato a fare film mi è venuto naturale pensare al luogo in cui sono nato e cresciuto. Troppi film giapponesi si concentrano sulla vita a Tokyo, è importante diversificare.

È questa una delle cose che non vanno nell’industria cinematografica giapponese, per riprendere una domanda presente anche nel film Life Finds a Way?
Si dice spesso che la diversità è fondamentale, però mi sembra che nei fatti non sia data la giusta importanza a queste parole. Chi va a vedere le grandi love story, film campioni d’incasso come quelli di Makoto Shinkai, è difficile sia interessato al mio Cry. Per me bisogna pensare a non ridurre i valori umani a poche proposte, ma avere una visione più ampia.



Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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