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Synecdoche, New York - Recensione

Il Grande Cinema non ha tempo né età e Synecdoche, New York arriva, seppur con sei anni di ritardo, sui nostri schermi: abbagliante film d'esordio alla regia di Charlie Kaufman che va dritto all'essenza della vita, regalando una vasta gamma di emozioni come solo i lavori destinati a lasciare il segno sanno fare

Cosa abbia spinto la benemerita BIM a svolgere il ruolo di 'becchino cinematografico' e portare dopo sei anni in Italia questo lavoro di Charlie Kaufman, geniale sceneggiatore tra gli altri di Michel Gondry e di Spike Jonze, qui al suo debutto come regista, non ci è dato di saperlo, e siccome il Grande Cinema non conosce età e tempo, comunque, la decisione è degna di plauso, perché Synecdoche, New York è un grande film, tra i migliori degli ultimi dieci anni, come solo le storie che, giocando col tempo che passa, sanno regalare la tangibile e lacerante sensazione di dolore e di oscurità che emerge quando si va dritti alla quintessenza della vita.
Narrarne la trama può risultare altamente riduttivo. Basti sapere che dietro le vicende di Caden Cotard, commediografo americano di un certo successo, in rapida successione scosso da insoddisfazione, ipocondria estrema, abbandono da parte della moglie, artista anch'essa, e della piccola figlia, rapporti umani in perenne instabile equilibrio, il regista mette in scena un progetto tra i più ambiziosi che si siano mai visti: la descrizione della vita, nei suoi aspetti più pregnanti, e la sua parabola tracciata dal profondo senso della morte, dall'arte come espressione e come specchio della realtà, dall'incomunicabilità umana racchiusa nella famiglia e nei rapporti interpersonali.
Come tutte le opere ambiziose, anche questa non sfugge a qualche imperfezione, minima a dire il vero e soprattutto, quando sa andare dritta al cuore del problema, si tinge coi colori del film che lascia una traccia indelebile. Non è assolutamente un film facile, da nessun punto di vista, percorso com'è da acrobazie verbali, da un approccio fortemente intellettualizzato, da profonde riflessioni, da un senso di generale intangibilità che Cotard, vinto un prestigioso premio con tanto di finanziamento, tenta di mettere in scena in una opera 'globale' che deve essere specchio di una esistenza dominata dall'incapacità di essere sé stessi e dalla labilità della realtà, in eterno contrasto e simbiosi con il sogno.
Lo sconcerto che attanaglia nel vedere la promiscuità assoluta dei ruoli che si appalesa nel film, con i protagonisti che recitano se stessi nell'opera di Cotard per il tramite di attori che li braccano però anche nella vita privata, vuole essere una forma di esorcizzazione del disagio di essere sé stessi, fino alla proiezione extracorporea.
Il senso di ossessione per la morte che si respira in tutta la storia risulta essere opprimente in alcuni momenti e a nulla valgono le gag più o meno volontarie dell'ipocondriaco Cotard a stemperare il clima: morte fisica e morte artistica scrutate con un profondo senso di rispetto e di terrore. Kaufman mette a fuoco il suo occhio su tutto ciò che rappresenta disagio per il protagonista che, suo malgrado, diviene una sorta di rappresentazione della caducità umana: la famiglia che si disgrega dopo una lunga deriva, l'incapacità a resistere agli eventi, la ricerca del rapporto affettivo che appaghi, il disperato tentativo di rimettere le cose a posto e su tutto l'assoluta incapacità di poter controllare le cose, dargli un senso che almeno plachi l'insofferenza; a nulla servirà al povero Cotard riprodurre spazi e luoghi in sterminati studi: anche racchiudendo il cosmo in un capannone, il senso di incompiutezza rimane.
Raramente si è visto un film che così pesantemente si interroga sulla vita e sulla morte, ne sono esempio illuminante le parole riportate dal pastore in uno dei tanti funerali del film: “La maggior parte del tempo lo passi da morto o prima di nascere. Ma mentre sei vivo, aspetti invano, sprecando anni, una telefonata o una lettera o uno sguardo da qualcuno o qualcosa che aggiusti tutto. E non arriva mai oppure sembra che arrivi ma non lo fa per davvero. E così spendi il tuo tempo in vaghi rimpianti o più vaghe speranze perché giunga qualcosa di buono".

Sta probabilmente in queste parole uno dei cardini narrativi-filosofici che sostiene il film che, però, è capace di andare oltre: suscitare emozioni e sussulti difficilmente esprimibili in parole che fanno di Synecdoche, New York un film unico, sterminato nella sua poetica della vita, nel quale la genialità di Kaufman trova probabilmente la sua più completa espressione e in cui il compianto Philip Seymour Hoffman regala una delle sue interpretazioni più belle e complesse.

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