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12 anni schiavo - Recensione

Il viaggio, drammatico e retorico, di un nero nato libero dentro la sorte dei fratelli in schiavitù, raggelato dal vetro attraverso cui Steve McQueen racconta le sue storie

La schiavitù degli afro-americani è un genere cinematografico che, senza mai esplodere, ha saputo conservarsi nel tempo con produzioni spesso assai interessanti. Il genere spazia da serial epocali come Radici a impertinenti e improbabili remake, come il recente Django Unchained. Ha fatto da sfondo a Via col vento e al primo film drammatico di Steven Spielberg che è, forse, quello più bello: Il colore viola.
Anche Steve McQueen, travolto dalla necessità di un'ispirazione, decide di cimentarsi in questo filone e si fa rapire, dice lui, da un testo che, se pur diffuso anche nelle scuole, non conosceva: Twelve  Years A Slave di Solomon Northup. Il libro narra la vera storia di Solomon, nato libero nella contea di New York che, per il colore della pelle e grazie alle leggi vigenti negli Stati del Sud prima della Guerra di Secessione, viene rapito e venduto come schiavo in Louisiana, dove resterà in cattività per gli anni del titolo, fino a che un'antischiavista canadese (nel film Brad Pitt, in una particina) non lo aiuterà a riacquistare la propria identità e, con essa, la libertà.
Il regista s’immerge nel progetto con ardore. Recluta uno sceneggiatore di solido mestiere (John Ridley, anche produttore), scova un volto poco noto al grande pubblico (il teatrante Chiwetel Ejiofor) per interpretare il protagonista, ci mette pure il suo attore feticcio (Michael Fassbender) nella parte del vilain e una nutrita serie di comprimari tutti molto motivati e in parte. Chiama il fidato direttore della fotografia Sean Bobbitt a patinare le sequenze più crudeli, a far rilevare quanta bellezza ci possa essere sulla Terra e quanto questa sia indipendente dalle umane tribolazioni. Monta il girato, alternando l’atroce presente di Salomon da nigger con l’elegiaco passato da uomo libero. Disegna caratteri credibili, situazioni oggi paradossali, violenze fisiche e psichiche.
Eppure non emoziona.
Sarà il volto sempre un po’ attonito del protagonista, sarà il rigore estetico delle inquadrature, sarà quell’intercapedine algida, che è un po’ il marchio di fabbrica di Steve McQueen, tra lo sguardo del narratore e le vicende raccontate.
Si resta distanti.
A dispetto dell’innegabile qualità dei singoli ingredienti, la torta non lievita. Si ‘siede’ sui movimenti di macchina che esplicitano la regia, sui tasselli scomposti della sceneggiatura, troppo fiduciosamente racchiusa in stanze autoconclusive, sui caratteri mai esplorati a fondo, protagonista compreso. Il risultato può anche essere gradevole al gusto ma il cinema, quello che sorprende e si fa ricordare, è molto lontano.
E’ sorprendente leggere le dichiarazioni appassionate del regista sulla pregnanza del soggetto e del suo coinvolgimento emotivo nel lavoro svolto e poi confrontarli con la freddezza e il disincanto narrativo del risultato.

Voluto o accidentale che sia, il sapore che lascia, per continuare la metafora pasticcera, è quello di un prodotto industriale, pieno di aromi artificiali, che somiglia a un dolce di alta scuola o fatto in casa con amore, ma di cui non è, inesorabilmente, che un simulacro.

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