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Take Five - Recensione (Festival di Roma 2013 - Concorso)

Un po' noir, un po' action movie che parte da un'idea iniziale citazionista, Take Five di Guido Lombardi regala uno sprazzo di luce sul cinema italiano, grazie ad una storia che ha ritmo e struttura

Finalmente uno sprazzo di luce nostrana sul Festival di Roma che fino ad ora ha confermato lo stato di depressione del cinema italiano: il merito è di Take Five di Guido Lombardi, che già nel 2012 ottenne a Venezia il Leone del Futuro con Là-Bas. Il nuovo film è un gustoso mix di noir e action movie sullo sfondo (o forse meglio nelle viscere) di una Napoli che rimane però molto defilata, evitando così l'atavica trappola del macchiettismo e del folclore, ahimè troppo spesso fatale.
L'idea di partenza è una divertente citazione de I soliti ignoti, caposaldo della commedia all'italiana classica: cinque personaggi tutti diversi tra loro, con vissuti diversi, con stili di vita anche lontani, ma accomunati dalla cronica necessità di soldi.
C'è l'operaio regolare ma scommettitore pieno di buffi, c'è il ricettatore ormai di mezza età, c'è il pugile fallito che ha dato un calcio ad una promettente carriera sfasciando una sedia in testa ad un giudice, c'è il boss, leggenda dei quartieri popolari, da poco tornato libero ma tormentato dalla depressione, c'è il fotografo che sbarca il lunario con i matrimoni e con improbabili book per aspiranti modelle, e che necessita di soldi per sottoporsi al trapianto di cuore: tutti rigorosamente pregiudicati con svariati anni di galera alle spalle, tranne l'operaio che è però quello cui scocca la scintilla in testa quando è chiamato a svolgere un lavoro nel caveau di una banca. Messa in atto la rapina che dovrebbe segnare la svolta dei cinque, ben presto le cose prendono una piega inaspettata perché alle loro calcagne si mette la camorra, mentre i dissidi interni al quintetto iniziano a farsi strada.
Tra imbrogli, trucchetti, tradimenti, avidità e contrasti personali, la storia si ingarbuglia con un finale beffardo nel quale agli occhi attenti del cinefilo asiatico non può sfuggire una chiara citazione di Johnnie To. Basando la pellicola su una idea non particolarmente originale, Lombardi riesce a mettere in piedi una storia ben strutturata, a regalare un buon ritmo, affidandosi soprattutto alla precisa e lucida descrizione dei personaggi, per fortuna mai ridotti a macchietta, ma anzi ben sondati nella loro personalità.

Vero che il racconto in certi tratti si contorce troppo su stesso e forse nel finale c'è qualche istante (solo istante) di troppo legato alla solita ossessione dei registi di essere certi che il pubblico abbia capito, ma nel complesso il film ha la sua validità, diverte con intelligenza e si contraddistingue proprio per la forza descrittiva dei personaggi, interpretati tutti da attori semiprofessionisti, alcuni provenienti dalla Gomorra di Matteo Garrone, che sanno essere spontanei e perciò credibili.

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