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La vita di Adele - Recensione

L'idea di come raccontare l'amore e la vita secondo Abdellatif Kechiche. La trasfigurazione operata dai sentimenti inseguita sui volti e i corpi delle protagoniste in una storia come tante. Un film faticoso riscattato solo in parte dalla recitazione straordinaria delle interpreti

Spesso mi sono domandato se i film che vediamo siano il risultato di un progetto predefinito e realizzato o se, come nel gioco del passaparola, l'idea parta con una certa forma e la sua attualizzazione la trasformi in qualcosa di diverso. Qual è la percentuale di scostamento tra teoria e pratica? Ne La vita di Adele sembra essere piuttosto elevata.
Riesce difficile pensare che Abdellatif Kechiche, volendo portare sullo schermo una storia d'amore così delicata e struggente come Le bleu est une couleur chaude, graphic novel disegnata dalla giovane scrittrice francese Julie Maroh, abbia voluto fin da subito stravolgere l'animico racconto d'origine con il taglio tellurico proposto dalle riprese.
In una Francia fine scorso millennio, la liceale Adele scopre lentamente l'amore e le sue pene innamorandosi di Emma, una ragazza più grande di lei dichiaratamente omosessuale. La storia si evolve, passando dalla passione iniziale al raffreddamento dato dall'abitudine, dal tradimento alla separazione, fino all'elaborazione mal riuscita del lutto da parte dell'elemento più debole della coppia, in questo caso Adele.
Il racconto, nella prima parte, è estremamente fedele alle tavole disegnate. Poi se ne discosta, scartando l'elemento tragico e romantico (la malattia di Adele) a favore di un epilogo più ordinario e comune, dove la sofferenza dell'amante respinto, benché così diffusa e sperimentata, non riscuote simpatie e procura, anzi, fastidio e allontanamento.
Il fastidio è forse il sentimento maggiormente suscitato dal regista ed è questo che genera il dubbio: la materia è sfuggita al controllo o lo sgradevole registro è ricercato? E perché?
Perché inseguire con caparbietà un realismo impossibile, attraverso i dettagli della pelle, del muco, dei residui di cibo sul volto?
Perché fare urlare così fastidiosamente le ragazze nelle scene di sesso?
Perché tenere in piedi il film per tre esasperanti ore se quello che s'intende raccontare è così poco interessante?
Forse la giuria del Festival di Cannes - che ha attribuito la Palma d'oro al film - deve avere trovato intriganti gli eccessi descritti, forse ha deciso di premiare questa pellicola proprio per il suo essere così poco compiacente verso il pubblico, forse è stato un puro sciovinismo festivaliero, stile il nostro Sacro Gra a Venezia.
Non lo so e sposterei senza rimpianto la pellicola nel cestino dei film da dimenticare se non fosse per l'incredibile prova data dalle due attrici protagoniste (Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux) che s'immergono con totale e generosa adesione nei loro personaggi, rendendoli plausibili e naturali in contesti che sarebbero potuti facilmente sfociare nel grottesco. La Exarchopoulos, in particolare, riesce a far percepire il trascorrere degli anni calibrando le espressioni e i movimenti di Adele in funzioni delle età che questa attraversa. Non serve altro per indicare i salti temporali.

La bravura mostruosa delle protagoniste non è sufficiente, comunque, per promuovere la visione e lo scoprire, nei titoli di coda, che il film riporta solo i capitoli I e II della vita di Adele, suona come una temibile minaccia.

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