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Sacro GRA - Recensione (Venezia 70 - In concorso)

Il Grande Raccordo Anulare di Roma e le storie invisibili ai suoi margini oltre il frastuono delle macchine: il talentuoso documentarista Gianfranco Rosi gira per la prima volta in Italia, ma il suo sguardo entomologico si perde letteralmente per strada...


Gianfranco Rosi, italiano emigrato negli States per iniziare la sua carriera di regista, è uno dei più grandi documentaristi in attività. O meglio, forse dovremmo dire 'era', perché dopo aver visto l'attesissimo ma deludente Sacro GRA, il suo ultimo lavoro in concorso alla 70esima Mostra del Cinema di Venezia, il pedigree artistico del regista perde un po' smalto.
Purtroppo poco conosciuto in Italia, Rosi ha raccontato l'India dei barcaioli, il deserto americano dei giovani emarginati e il Messico dei sicari della mala. Ora porta sullo schermo una realtà tutta italiana: quella delle periferie all'ombra del Grande Raccordo Anulare di Roma. Girato nell'arco di due anni trascorsi da Rosi andando avanti e indietro a bordo di un mini-van, il film immortala il paesaggio in cui è immersa la celebre autostrada tangenziale della Capitale e piccoli frammenti di vita che ogni giorno si sviluppano attorno ad essa.
L'intuizione di Rosi è meritevole, non fosse altro perché porta il cinema italiano finalmente a contatto con una realtà inesplorata, con una consapevolezza tematica e stilistica difficile da riscontrare nel panorama cinematografico nostrano. Il guaio è che le storie che incrociano lo sguardo entomologico della macchina da presa del regista non sono poi così interessanti come ci si aspetterebbe... In altre parole, Rosi sembra non riuscire ad andare oltre certi cliché di un cinema che si appiattisce sulla fascinazione e sulla narrazione di mondi invisibili, pensando che basti solo quello per fare un buon documentario. Vedere individui un po' sui generis come un botanico ossessionato dalle larve divoratrici di palme, un pescatore di anguille che si lamenta con la moglie di un articolo di giornale poco professionale che lo riguarda direttamente, un nobile decaduto dalla facile parlantina, un principe che affitta la sua abitazione lussureggiante per la realizzazione di fotoromanzi (sono solo alcuni dei personaggi che appaiono lungo il film), e osservarli come fa Rosi limitandosi a registrarne le azioni mentre la loro vita scorre come un giorno normale, fa molto cinema-verità ma nulla più. Un altro problema è dato dall'artificiosità con cui le persone protagoniste delle storie narrate si approcciano alla macchina da presa: in più di un'occasione si ha la sensazione che le loro azioni siano poco naturali, come se fossero dettate dalla consapevolezza di essere al centro di un'opera cinematografica. Consapevolezza che fa perdere molto della naturalezza necessaria per un documentario che si prefigge l'obiettivo di svelare la vita nel suo farsi.

Sacro GRA non va dunque oltre la semplice testimonianza, fallendo così nel suo compito più importante, ovvero quello di essere uno specchio del legame misterioso tra un luogo e le persone che lo abitano. Peccato, perché Rosi ci aveva regalato ben altre prove in passato.

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