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La quinta stagione (Venezia 69 - In concorso) - Recensione

Apocalisse del cinema, del suo linguaggio, del suo liquido seminale, La quinta stagione ci insegna che guardare con occhio libero e disincantato è il principio di ogni redenzione. Se le parole falliscono, le immagini ci restituiscono la semplicità del senso, del suo fluire nelle vene e nei pixel della civiltà contemporanea. Scrivere e zappare la terra non sono poi attività intellettuali così differenti

In una piccola riproduzione dell'Apocalisse applicata all'esperienza cinematografica, La quinta stagione (in originale La Cinquième Saison), chi ha avuto la ventura di imbattersi, in Rete o su carta stampata, nella lettura delle impressioni critiche che hanno seguito la proiezione del film diretto dal duo di documentaristi belgi Peter Brosens e Jessica Woodworth, ha potuto leggere di cose inusitate, parole ricercate e accoppiamenti concettuali almeno semanticamente arditi, come (si cita a casaccio e tra le cose più notevoli): “livello metamorfico”, “suoni acusmatici”, “metafore trasmigranti”, “stadio alchemico dell'uomo”, “fenomeni (sovra)naturali”, “posizione interludica”, “fascino intermediale”; cose del genere, insomma. Ora, che tutto questo florilegio di scrittura forbita sia stato dedicato a un film che da più parti viene definito (in soldoni, ché qui il parlar forbito non c'aggrada molto) quale esempio in cui la forma sovrasta la sostanza, già di suo dovrebbe far riflettere su cosa abbia concettualmente meno senso e/o dignità, se un film che cattura dal punto di vista visivo e non vuole raccontare se non per suggestioni ed estasi oppure una recensione che per descrivere la vacuità del detto film si lascia andare a sterili masturbazioni lessicali di cui s'è dato un piccolo campionario qui sopra.
Aggiungete che la seconda infamante accusa a La quinta stagione è quella di essere derivativo, mutuando scene e impressioni a dire di altri che proverrebbero da (vado in ordine alfabetico): T. Angelopoulos, I. Bergman, H. Bosch, P. Brueghel e il realismo fiammingo, L. Bunuel, B. Dumont, C. Friedrich e il romanticismo tedesco, J. Genet, M. Haneke, A. Kaurismaki, S. Kubrick, L. Majewski, F. Nietsche, A. Tarkowskij, B. Tarr, L. von Trier e dulcis in fundo... la Videoarte (che quando non si sa che altro citare di solito finisce nel paiolo pure lei); dicevo aggiungeteci anche la poca originalità e avrete il ritratto di un film che nessuno dovrebbe aver interesse a vedere, a meno di desideri di sofferenza auto-inflitta quasi patologica.
E invece no. Invece, non è così. E doveva pur farcelo sospettare il fatto che quando si scomodano i grossi nomi, se ne scomodano tanti (alcuni dei quali, ça va sans dire visto la provenienza delle citazioni, vagamente a sproposito), e ci si sbizzarrisce con paroloni e frasi altisonanti, solitamente manco troppo lontano si sente lo stridio di unghie sullo specchio di quelli che “oddio questo film non l'ho capito, non l'ho sentito, non l'ho vissuto, ma adesso per parlarne faccio il fenomeno e lo smonto... hai visto mai che sennò poi qualcuno lo capisce, lo sente, lo vive e finisce che mi sento io per primo un po' da meno”.
Invece La quinta stagione è un film su un'apocalisse vera, non di parole e commenti 'cinematografici', un film che va visto senza farsi distrarre dalle parole di chi ne dice cose qualsiasi, un film di geometrie, ambienti, contesti, tappeti di contorno, ritmi antropologici di una civiltà bruciata sul falò delle macchine e del Novecento, un riposo della mente nell'abbraccio di un'atrocità morbida, un racconto di atmosfere, di liquida naturalità, e non di parole scritte in un post-visione fatto di confusione e (forse) rancorini malsopiti.

Per questo il pezzo che avete finito non parla de La quinta stagione , ma vi invita a vederlo, a lasciarlo scorrere davanti e dietro gli occhi.
Perché guardare è un atto di critica, in sé.

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