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In un mondo migliore

La locandina di In un mondo miglioreGenerazioni a confronto: genitori in crisi o assenti e figli tormentati. Susanne Bier, ex allieva di Lars von Trier, mette in scena rapporti filiali e problemi adolescenziali in un dramma famigliare ambientato nella tranquilla provincia danese. Candidato per la corsa all’Oscar come Miglior film straniero
In una monotona e tranquilla cittadina della provincia danese si incrociano le vite di Elias e Christian, due adolescenti alla prese con problemi familiari ed esistenziali. Figlio di una coppia di medici in crisi matrimoniale, Elias ha difficoltà a relazionarsi con i suoi coetanei: ogni giorno subisce abusi e maltrattamenti da parte di un gruppo di bulli della sua scuola. Attratto da pulsioni violente e distruttive, Christian, da poco rimasto orfano di madre, ha un rapporto conflittuale con il padre, un professionista girovago che non si è mai preso cura fino in fondo del figlio. Dopo essere diventati compagni di scuola, Elias e Christian stabiliscono un’amicizia speciale che li spinge a farsi forza a vicenda di fronte alle avversità. La solitudine, la fragilità ed il dolore, però, sono in agguato: ben presto il loro legame si trasforma in una pericolosa complicità che li porta a mettere in gioco la vita di entrambi.

Luci naturali, macchina da presa a mano in stile Dogma, musiche minimaliste: candidato danese per la corsa all’Oscar nella categoria Miglior film straniero agli Academy Awards 2011, In un mondo migliore è un dramma famigliare che estremizza un soggetto universale (i rapporti tra padri e figli) senza perdere di vista l’orizzonte degli eventi. Non è esente da difetti (a tratti alcuni elementi dell’esistenza dei protagonisti non sono sviluppati a dovere), ma avvince per come racconta, nell’arco di un breve lasso di tempo in cui tutti i personaggi sperimentano l’estraneità a se stessi e la solitudine, il confronto rivelatore tra due generazioni che, in mezzo a rancori, confessioni e timidi gesti di tenerezza, scoprono il valore dell’amore e dei legami che uniscono gli individui.
Una scena del filmIn equilibrio giusto tra vicende ad alto tasso drammatico ed emozioni quasi sommesse, prende forma il ritratto preciso e meditato di due famiglie in cui serpeggiano incomprensioni tra genitori e figli. L’abilità di Susanne Bier sta nell’evitare la commozione facile: la regista privilegia una secchezza di toni e di modi, grazie alla quale riesce a scolpire il contrasto spesso molto forte tra caratteri opposti, affidando ogni risvolto del racconto – circoscritto in più frangenti in modo claustrofobico tra le pareti domestiche – ad atmosfere tese ed angoscianti che non concedono nulla alla retorica dei buoni sentimenti, ma che sono sempre indirizzate ad un cinema realistico di cronaca in cui prevalgono le psicologie ed i loro turbamenti.
Capace di essere più compatta e lineare rispetto ai film precedenti, la Bier, ex allieva di Lars von Trier, tiene saldamente i fili delle sue storie private incastrandole alla perfezione, dirige gli attori al meglio ed utilizza le location come spazi di empatia emozionale. Per di più, senza eccedere in psicologismi, non si limita al tema dell’incomunicabilità all’interno dei nuclei familiari, ma prova anche ad offrire un quadro della società in cui viviamo. Astuta? Forse sì, ma come i registi che credono nel potere delle grandi storie.

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