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Incontro con Felipe Aljure

Il cinema secondo Felipe Aljure, regista colombiano di culto ospite d'onore in Sardegna del festival Terre di Confine. Dalla formazione in Europa al lavoro con grandi produzioni internazionali, dai film indipendenti alla stesura di una legge che ha favorito lo sviluppo della cinematografia del suo Paese

Felipe Aljure parla, anche se con modestia dice non è vero, un discreto italiano. "L’avevo studiato un pochino da ragazzo perché volevo andare a Roma per il Centro Sperimentale. Alla fine, per una serie di circostanze, sono invece finito a studiare a Londra". Alla London Film School inizia così la sua avventura nel cinema fatta, al ritorno in Colombia, anche di diverse partecipazione con varie mansioni a importanti produzioni internazionali nella seconda metà degli anni Ottanta. Mission di Roland Joffé, Cobra Verde di Werner Herzog, Cronaca di una morte annunciata di Francesco Rosi. Film quest’ultimo tratto da un romanzo di Gabriel García Márquez così come L’amore ai tempi del colera di Mike Newell al quale ha lavorato più recentemente, insieme ad altri lungometraggi americani girati nel suo Paese come The Next Three Days di Paul Haggis e Civiltà perduta di James Gray.
Ma Felipe Aljure ha realizzato anche suoi progetti. Pochi lungometraggi, ma innovativi dal punto di vista formale e narrativo. Tanto da farlo diventare un regista di culto in Colombia. "Rivoluzionario? Non lo so. Ma posso dire che i nostri film sono cresciuti liberi, senza affiliazione a un tipo di cinema classico o un altro modo di narrare. Sono film che hanno trovato il proprio linguaggio audiovisuale, hanno una loro personalità". Da La gente de la Universal uscito nel 1994 a El colombian dream nelle sale nel 2006 al più recente Tres escapularios che Aljure ha presentato in anteprima italiana ad Asuni, in Sardegna, durante l’ultima edizione di Terre di Confine Film Festival. Ospite d’onore della rassegna che quest’anno si è concentrata sul confronto tra Sardegna e Colombia, legate da leggi sul cinema (anche se una regionale e l’altra nazionale) nate più o meno nello stesso periodo e capaci di dare uno slancio decisivo a entrambe le cinematografie. E sulla stesura di quella del Paese sudamericano ha avuto un ruolo importante proprio Felipe Aljure.

La gente de la Universal. Il primo lungometraggio di Aljure arriva come un ufo in Colombia, agli inizi degli anni Novanta, quando la media annuale di film prodotti nel Paese è ancora bassissima. Una commedia nera che ruota attorno a un’agenzia investigativa guidata da un ex sergente della polizia. La sede si trova nello stesso appartamento dove vivono lui e la moglie che lo tradisce con suo nipote, dipendente dell'agenzia alla quale si rivolge un gangster incarcerato per sorvegliare la sua amante, un'attrice porno. "All’epoca solo all’idea di fare un film ci prendevano come pazzi. A sostegno della produzione cinematografica non c’erano istituzioni se non un’impresa pubblico-privata chiamata Focine che era in via di fallimento, composta da burocrati che non facevano niente. Per seguire una certa formalità, chiesi a loro di inviare la sceneggiatura a Londra, dove avevo studiato cinema, ad Alan Fountain, produttore di Channel 4, che sembrava interessato ad aiutarci.  Quando andai poco dopo in Inghilterra, scoprii che nessuno aveva mandato la nostra sceneggiatura. Tornato in Colombia, un giorno mentre lavoravo come direttore della fotografia a un progetto televisivo ricevetti una chiamata da Focine. Quella volta e ancora diverse altre mi rifiutai di parlarci visto come si erano comportati. Alla fine decisi di stare a sentire cosa volevano: mi comunicavano di un premio vinto a Cuba per la sceneggiatura. Ma io non avevo inviato nulla! Era stato Fernandez Pérez (regista cubano) a chiedere loro se avevano delle sceneggiature da mandare al festival dell’Avana e la nostra era stata premiata. Con ben 120mila dollari che ci sono serviti a partire con il film. Ci hanno aiutato poi anche degli amici bulgari, conosciuti un anno prima quando erano venuti in Colombia per intervistare Gabriel García Márquez. Arrivati da noi avevano saputo che lui voleva un sacco di soldi per l’intervista, ma a loro quel denaro serviva per affittare un’equipe e le attrezzature. Ci siamo messi a loro disposizione, gratis, e per riconoscenza ci hanno poi aiutato per la fase di post-produzione del nostro film, fatta in Bulgaria. Ma ci siamo serviti anche di prestiti bancari e quando abbiamo finito gli avvocati hanno cominciato a perseguitarci. Avevamo bisogno di presentare il film, ma nessuno lo voleva distribuire, lo trovavano troppo strano e alcuni offensivo per la Colombia. Alla fine, dopo tante porte in faccia, siamo riusciti a farlo uscire. Ed è andato bene, 450mila spettatori per un film in dieci copie. Abbiamo trovato così i soldi per fermare le azioni legali contro di noi".

El colombian dream. Anche il secondo lungometraggio di Aljure ha alle spalle un’avventurosa storia produttiva e distributiva. Un altro film segnato da una vena di follia, che per comodità si può inserire tra le black comedy. La storia di due gemelli che sono coinvolti nella vendita di allucinogeni per guadagnare denaro facile. Finiranno nel mirino dei trafficanti e di un killer. "A differenza del primo film girato in 35 mm, per questo abbiamo lavorato in 16 mm, poi digitalizzando la pellicola per aggiungere effetti visivi in post-produzione. Era un momento tecnologico di passaggio, ma abbiamo fatto male i conti e ci siamo anche stavolta indebitati. Per l’uscita non sono mancati i problemi, nessuno voleva un film così pazzo. Ricordo che poi abbiamo provato a proporlo con una proiezione alla Rcn (Rete tv colombiana), ma alla fine in sala nessuno diceva niente. Mi sembrava di aver fatto uno sbaglio colossale, proporre all’establishment un film anti establishment. Ma poi con sorpresa il proprietario ha detto che era un’opera davvero intelligente, e gli altri si sono subito accodati a lui. Così sono arrivati i soldi e una promozione importante. Mi è dispiaciuto però non poter seguire il percorso del film da vicino come fatto con La gente de la Universal  perché nello stesso periodo dovevo lavorare come regista della seconda unità a L’amore ai tempi del colera. Mi sono sentito come un padre che abbandonava un figlio".

Tres escapularios. Il film più recente di Aljure è diverso dai precedenti. Abbandona quel tocco umoristico e affronta, anche se da una prospettiva particolare, il tema del conflitto armato così presente nella storia colombiana e come naturale riflesso nel cinema. Protagonisti sono un ragazzo e una ragazza che hanno la missione di uccidere l’ex combattente di un gruppo armato le cui dichiarazioni hanno provocato il bombardamento di un campo. Nel loro viaggio di ricognizione attraverso i Caraibi colombiani, il rapporto tra i due protagonisti passa dal lavoro condiviso al romanticismo e allo scontro etico che si instaura durante la ricerca della donna che devono uccidere. "Una sorta di road movie con due personaggi principali che tutto il tempo parlano di altri personaggi che sono assenti. Lo abbiamo realizzato con i soldi di un premio per la produzione, puntando su una troupe ridotta e la versatilità delle nuove attrezzature, con la loro leggerezza anche dal punto di vista dei costi, il che ci ha permesso per la prima volta di terminare un film senza debiti. Facendolo comunque come volevamo. Abbiamo girato con una fotocamera, non nascondendo questa condizione ma sfruttandola: con la profondità dei piani, lavorando in modo particolare sulla messa a fuoco, utilizzando lo split screen".

La legge cinema. I tre lungometraggi di Felipe Aljure, anche perché realizzati un bel po’ di anni uno dall’altro, sono descrittivi di diversi momenti tecnologici (il primo girato in pellicola 35 mm, il secondo in 16 mm, il terzo con una fotocamera digitale) ma anche di periodi differenti dal punto di vista legislativo. Prima della legge cinema, nei primi anni della sua approvazione e oggi che è ben rodata e funziona bene. Con risultati importanti, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, che dimostrano come la cinematografia colombiana sia diventata tra le più interessanti del panorama mondiale. Basta pensare al passaggio significativo, con tanto di premi, ai festival di film prodotti recentemente dal Paese sudamericano. A Cannes per esempio si sono imposti all’attenzione lungometraggi come La tierra y la sombra di César Augusto Acevedo ed El abrazo de la serpiente di Ciro Guerra. Un intervento legislativo fondamentale che ha avuto tra i protagonisti lo stesso Aljure, uno dei fondatori della Direzione di Cinematografia del Ministero della Cultura nella seconda metà degli anni Novanta e, successivamente, tra gli estensori della legge del 2003 intesa a regolamentare e promuovere l’attività cinematografica nel Paese. "Per semplificare al massimo, quelli che investono in un film colombiano possono avere uno sconto tributario, ma tutti quelli che vogliono avere un beneficio devono anche essere apportanti. Così quando un film colombiano o straniero passa al cinema, sulle entrate viene pagata un’imposta che alimenta il fondo". Una legge pensata per diminuire il bavaglio finanziario nella produzione cinematografica, ma anche con l’idea di sviluppare uno sguardo dall’interno del proprio Paese, in difesa della capacità di autorappresentarsi e di raccontare il mondo dal posto in cui si vive. "Attraverso il cinema che è la nostra grotta di Altamira. Se l’uomo del Paleolitico si è servito dell’arte rupestre come mezzo di rappresentazione, oggi abbiamo strumenti più complessi. E avere una propria voce, audiovisualmente parlando, è troppo importante perché il colonialismo culturale anche con il cinema lavora per imporre certi modi di pensare, di vedere la vita. È fondamentale avere anche uno sguardo autorappresentativo della nostra realtà per dare al pubblico possibilità di paragonare due visioni. Il problema è che oggi in Colombia facciamo film, andiamo ai festival importanti e poi quando tornano la gente va poco al cinema a vederli. Forse siamo in un momento in cui il nostro cinema è un po’ egoista e dobbiamo fare mea culpa, pensare se quello che facciamo ha un dialogo, un rapporto con il popolo. O se siamo in un momento in cui l’industria sviluppa semplicemente film per fare soldi e gli autori fanno film per esser premiati nei festival stranieri. Comunque il nostro è un cinema ancora giovane, ha diritto di cercare la propria strada. È come un adolescente, non è un bambino ma non è ancora adulto. Il cinema è fatto di più ingredienti, uno economico e industriale e l’altro umano e creativo. Totalmente separati creano problemi, vanità e arricchimento sono i suoi pericoli: se prevale l’ingrediente umano usato solo per la redenzione personale di un autore, diventa egoista; se si impone quello industriale come macchina per far soldi, che dà alla gente ciò che secondo lui essa vuole perde la sua essenza e diventa come una persona che offre a un bambino diabetico lo zucchero, lo fa felice ma lo porta alla morte.  Quando invece questi due aspetti camminano insieme, parlano al Paese, portano riflessioni, allora significa che un cinema è veramente in salute".

 

 
 
Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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