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Intervista ad Avi Mograbi

L'osservazione critica della società israeliana, lo sguardo militante, la responsabilità etica del regista, la relazione con la realtà: il cinema documentario secondo Avi Mograbi

Avi Mograbi è uno dei più importanti documentaristi israeliani. Attraverso i suoi film è abituato a indagare la realtà del Medio Oriente, affrontando passato e presente con sguardo critico verso il suo Paese e una società dove non mancano le contraddizioni. Ha presentato alcuni dei suoi lavori anche nei grandi festival – August: A Moment Before the Eruption a Berlino, Avenge But One of My Two Eyes a Cannes, Z32 a Venezia – e proprio questi film sono stati al centro di una masterclass che il regista ha tenuto all'Accademia di Belle Arti di Sassari. Accademia che dal 2017 ha attivato un innovativo biennio specialistico di cinema documentario, organizzando parallelamente ai corsi dei workshop con grandi documentaristi. Un modo per passare in rassegna i principali approcci a questo genere, attraverso la testimonianza di alcuni dei registi più apprezzati a livello internazionale. Una presentazione di differenti metodi e stili di lavoro, tutti riconducibili al variegato mondo del documentario che oggi è diventato la nuova frontiera del cinema.

Mograbi, come è nata la sua passione per il cinema?
Una tradizione di famiglia. Mio padre gestiva un cinema e sono cresciuto guardando film. Alla fine però ho studiato altro, arte e filosofia, e soltanto più avanti sono tornato al vecchio sogno di fare film.

Documentari, perché?
Nei miei film, a dire il vero, è presente anche molta finzione, anche se si tratta di documentari. È stata una scelta naturale per raccontare il mio Paese. Fare film in Israele per me significa partecipare alla vita sociale e politica, esprimere la mia posizione sulla realtà e sul presente. È il motivo per cui nella mia idea di cinema è fondamentale lo sguardo del regista, la responsabilità etica di questo ruolo. Non potrei sostanzialmente fare film se non nel posto in cui vivo, conosco e vorrei cambiare.

Ma com'è considerato il suo lavoro in patria? Ha mai avuto problemi causati per la sua osservazione critica della società israeliana?
A dire il vero i miei film non sono molto popolari in Israele, arrivano a un pubblico limitato. Comunque non ho mai avuto problemi a realizzarli.

Su questa libertà di muoversi, viene da pensare a una scena di Avenge But One of My Two Eyes (noto in Italia come Per uno solo dei miei due occhi) in cui si può permettere di essere aggressivo nei confronti di un soldato israeliano a un check-point.
Sembra una scena simbolo di tolleranza, ma in realtà è il contrario, nasconde una situazione di razzismo. Se fossi stato palestinese la sua reazione sarebbe stata molto diversa, avrebbe fatto valere la legge marziale. Israele è uno Stato democratico fondato sull'identità: solo se sei ebreo allora sei cittadino, garantito da leggi civili.

Nello stesso film mostra come questa identità si fondi anche su una mitologia manipolata.
Ho pensato di rovesciare i miti del suicidio collettivo di Masada per non consegnarsi ai romani invasori e delle gesta di Sansone. Così nel primo caso gli ebrei diventano i romani e i palestinesi gli ebrei, nel secondo Sansone può essere visto come il primo kamikaze della storia. In fondo fa crollare il tempio senza fare distinzioni tra colpevoli e non, giovani e vecchi. Questa l'idea alla base del film.

A proposito di idee, come sceglie i soggetti per i suoi lavori?
La maggior parte delle volte sono i soggetti che scelgono me, quando giro non ho un'idea fissa. Certo non puoi andare in giro e riprendere tutto senza un piano, ma l'idea è che tu intervieni sulla realtà e la realtà interviene sulla tua attività di filmmaker.

Un modo di lavorare che sicuramente porta a molti cambiamenti rispetto alle intenzioni originali.
Ed è forse l'aspetto più interessante. Quando osservi la realtà, inizi a fare un film, non necessariamente succede quello che avevi immaginato a casa. Perché la realtà non è una natura morta. E non si può guardarla senza che lei guardi te, reagisca alla tua osservazione.

Ma quindi per lei cosa vuol dire fare documentari?
Entrare in relazione con la realtà. Perché il documentario non è solo un mezzo per trasmettere informazioni al pubblico. È cinema, come qualsiasi altro film. Il prodotto di un filmmaker che cerca di comunicare le sue impressioni sulla realtà. Certo è importante non alterare i fatti, ma quello che il regista fondamentalmente fa è processare la realtà e trasmetterla agli altri, raccontando una storia, nel modo in cui lui pensa deve essere tradotta.

E, la sua esperienza lo dimostra, si può fare in modi diversi. Per esempio in quello che al momento è il suo ultimo film, Between Fences, la realtà prende forma attraverso il teatro: un laboratorio in un centro rifugiati.
Uno dei riferimenti principali è stato il film dei fratelli Taviani Cesare deve morire (che racconta la messa in scena di un'opera di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia), anche se là c'è più costruzione da fiction, mentre noi documentiamo gli eventi spontanei nel laboratorio teatrale.

Non si può non chiederle, riguardo a questo argomento, com'è oggi la situazione dei migranti in Israele.
Il governo vuole espellere migliaia di rifugiati, ma è interessante il fatto che molti cittadini di differenti parti della società si stanno mobilitando per combattere questa decisione. Contro una deportazione che sembra un sarcastico ricorso storico, con Israele che ripete l'orrore di cui gli ebrei sono state vittime.



Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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