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The Hill of Freedom - Recensione (Venezia 71 - Orizzonti)

Un insegnante giapponese torna in Corea per cercare un suo vecchio amore: Hong Sang-soo racconta le relazioni umane, gli incontri casuali, le possibilità della vita, ma il suo cinema incapace di rinnovarsi realmente ha un po’ stancato...

Le vedute di Hong Sang-soo. Come un pittore che ritrae sempre lo stesso soggetto, il prolifico regista coreano continua a fare sostanzialmente il solito film. Anche se l’ultima produzione sembra virare sempre più verso la leggerezza, mentre lo sguardo irriverente, caustico che ha caratterizzato molto del suo cinema precedente tende ad affievolirsi. Con Hill of Freedom questo percorso si fa evidente.
Al centro della storia un insegnante giapponese, Mori, che torna in Corea per cercare un suo vecchio amore, mai dimenticato: Kwon. Mentre continua le sue ricerche, vive in una pensione e fa numerosi incontri. Come quello con una donna che gestisce un bar, La collina della libertà, alla quale riporta il cagnolino scappato. Ma al di là di questa trama, che Hong sviluppa in appena sessantasei minuti,  di cosa parla il film? La prima risposta arriva dal titolo del libro che Mori, un sempre bravo Ryo Kase, sta leggendo e porta sempre con sé: Time. La riflessione sul tempo, costruzione della mente necessaria all’uomo per organizzare la sua vita - come spiega in un passaggio del film lo stesso protagonista mentre parla con la bella locandiera interpretata dalla grande Moon So-ri - ha diretta conseguenza nello stile narrativo scelto dal regista coreano. Hong si diverte a spezzare il tempo in tanti frammenti, lasciando allo spettatore la libertà e il compito di mettere insieme i pezzi. Lo stratagemma usato per falsare la cronologia è lo sparpagliamento di una serie di lettere scritte da Mori a Kwon, nelle quali le racconta le sue giornate mentre la sta cercando. La lettura avviene quindi in modo casuale, senza un ordine temporale. E così succede con gli episodi che vede lo spettatore. Episodi dove si ritrovano le ambientazioni tipiche del cinema di Hong: pensioni, bar, ristoranti fanno da principale sfondo all’intreccio di relazioni tra i personaggi che conversano tra un bicchiere e l’altro, tra una sigaretta e l’altra. Quotidianità ripresa con delicatezza e levità, come al solito con lunghi piani fissi e qualcuna delle sue ben note zoomate.

Hong non dice niente o forse dice tutto raccontando le relazioni umane, gli incontri casuali, le possibilità della vita. Certo il suo cinema incapace di rinnovarsi realmente ha un po’ stancato, anche quando riesce a essere comunque godibile come in questo caso.

Vai alla scheda del film

 

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