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The Grandmaster - Recensione

Finalmente vede la luce il tanto atteso ultimo lavoro di Wong Kar Wai: uno sguardo defilato e intenso sul mondo delle arti marziali. Tra tempo che passa inesorabile e personaggi incompiuti, la poetica di Wong regala un lavoro che carpisce. Film di apertura al Festival di Berlino 2013

Era il 2002 quando Wong Kar Wai ed il fido Tony Leung Chiu Wai informarono il mondo cinematografico che era in cantiere un'opera sulla figura di Ip Man e sul mondo delle arti marziali.
Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti, confermando la proverbiale lentezza prossima allo sfinimento con la quale il grande regista affronta i suoi progetti: rinvii, pillole di notizie e di indiscrezioni, trailers rilasciati col contagocce, tutto a creare un clima quasi spasmodico intorno all'uscita di The Grandmaster, finalmente avvenuta in Cina ai primi di gennaio e in attesa del palcoscenico europeo in occasione dell'imminente Festival di Berlino.
Premessa fondamentale: chi si aspetta di vedere un lavoro che ripercorre la scia apologetica della figura di Ip Man, come ha fatto Wilson Yip nei suoi due capitoli, farebbe bene a modificare le proprie attese. The Grandmaster è anche la storia del grande maestro del Wing Chu, ma va ben oltre e non poteva essere altrimenti.
Coadiuvato alla sceneggiatura da Xu Haofeng, la cui visione filosofica della arti marziali traspare limpida, Wong Kar Wai descrive un circolo narrativo che parte dagli Anni '30 per giungere fino agli inizi degli Anni '60, frammentando nel tempo la narrazione in questo lasso di tempo: prima l'esperienza di Ip Man a Foshan, la sua battaglia per introdurre il suo stile fra quelli accettati dalla comunità marziale, il confronto, fatto di movenze e gesti quasi metaforici con il Maestro Gong prima che questi ritorni al Nord, forte della convinzione che gli stili settentrionali siano più ortodossi rispetto a quelli meridionali; la sfida rinnovata dalla giovane figlia di Gong in una delle scena più belle, oserei dire commovente nella sua poeticità e persino sensualità; l'invasione giapponese e la guerra, sempre sullo sfondo senza mai affiorare drammaticamente spinta dal consueto nazionalismo antinipponico, e soprattutto il rapporto con Gong Er, che da quel confronto fatto di salti e tecnica di combattimento arriva fino ai decenni seguenti, nel quale si esplica il nodo centrale della tematica wonghiana imperniata sul senso di incompiuto e sull'ineluttabilità del tempo che passa (non a caso la voce narrante è quella di Ip Man ed il finale richiama seppur da lontano In the Mood for Love).
In certi frangenti la Zhang Ziyi di The Grandmaster si sovrappone quasi specularmente alla Maggie Cheung di Ashes of Time come anche a quella di In the Mood for Love, a confermare in maniera decisa la centralità dei personaggi e della loro prospettiva nel cinema di Wong, ma soprattutto una certa continuità delle tematiche e delle atmosfere non legate al genere cinematografico che il regista affronta. E' quindi un occhio posato ancora una volta sul mondo delle arti marziali, dove i cardini poetici del genere vengono visitati da una angolatura molto defilata, sfumata nel tempo e nello spazio; lo spazio che Wong amplifica a dismisura nelle scene da combattimento, dove più che la tecnica irrompe la fisicità e la ritualità del gesto e i suoi particolari che portano alla deflagrazione improvvisa e che danno come risultato momenti quasi sincopati e convulsi.
Pur senza la collaborazione del grande direttore della fotografia Chris Doyle, dal punto di vista tecnico il film rasenta la perfezione, anche se risente in alcuni momenti del possente taglio che il regista ha dovuto eseguire per ridurre la durata del film ai 130 minuti attuali contro le quasi 4 ore dell'originale (in tal senso il personaggio di Chang Chen risulta abbastanza avulso dal racconto): la preferenza per gli ambienti scuri e piovosi (magistrale la scena iniziale sotto la pioggia) accentua quel senso di incompiuto e di rarefatto che avvolge la storia, nonostante forse la scena più bella dal punto di vista visivo è quella del funerale dove il bianco delle vesti si confonde con quello della distesa nevosa. Anche il procedere a balzi temporali, che potrebbe inizialmente condurre ad una certa confusione, è ben confezionato e sottolinea lo struggente incedere del tempo.

Anche The Grandmaster, come Ashes of Time, merita sicuramente una rivisione, proprio per metabolizzare quanto di apparentemente ostico c'è nel film che rende complessa la compenetrazione delle pieghe più nascoste della storia; ma questo è il marchio dei grandi film, quelli che lasciano la voglia di essere rivisti.

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