Rey - Recensione
- Scritto da Massimo Volpe
- Pubblicato in Film fuori sala
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Ribaltando completamente il giudizio del pubblico che lo aveva relegato agli ultimi posti come indice di gradimento, la giuria tecnica dell’ultimo Festival di Rotterdam ha incoronato Rey, opera seconda di Niles Atallah, americano di nascita ma cileno di origini e di adozione, col Premio della Giuria. Una tale profonda divaricazione di giudizio si spiega sostanzialmente nella natura del lavoro stesso di Atallah: un’opera complessa, per certi versi anche difficile nella sua ricerca sperimentale, cinema non per tutti insomma.
La storia si impernia sulla figura di Orelie-Antoine de Tounens, avvocato francese e avventuriero che nel 1860 fu proclamato (o si autoproclamò?) dagli indigeni Mapuche Re della Patagonia e Araucania, riunendo sotto le insegne della sua monarchia tutto il vasto territorio dell’estremo meridionale dell’America Latina che non era stato ancora sottomesso dal potere cileno.
Il film di Atallah si svolge scandito da una suddivisione in capitoli, all’interno dei quali il regista rimescola il tempo creando dei frequenti balzi temporali, tra presente e passato, memorie e sogno, e passa attraverso il processo che l’uomo subì da parte delle autorità cilene, la sua condanna motivata anche dalla infermità mentale, l’esilio in Francia e i suoi tentativi di ritorno in Patagonia per riacquistare il suo potere reale.
Avvalendosi di bellissime immagini d’epoca, opportunamente miscelate con immagini in vario formato ad arte ritoccate per mostrare il segno del tempo laddove non era riuscito l’espediente usato dal regista di tenere sotto terra per alcuni anni le bobine per favorirne l’usura, Rey è lavoro che affascina per la sua ostinata ricerca sperimentale nella quale trovano posto pupazzi di varia forgia, grottesche maschere che indossano i protagonisti, soprattutto durante il processo, personaggi in parte mitologici e in parte addirittura da fantasy.
La genesi del lavoro stesso dimostra la caparbietà con la quale Atallah abbia voluto costruire il suo personale racconto incentrato su una figura controversa: l’idea del film infatti è venuta al regista oltre sette anni or sono, con l’intento di volere dare attraverso le gesta di de Tounens una personale lettura della Storia. Le notizie sull’avventuriero francese sono in effetti molto scarne e quelle poche che abbiamo a disposizione divergono profondamente, quindi scrivere un racconto sulla sua figura è come immergersi nel magma del flusso storico che, per definizione, è costituito di verità quasi sempre parziali o addirittura di autentiche falsità.
La figura dell’avventuriero francese è vista da Atallah soprattutto nei suoi connotati romantici: un eroe solitario, padrone di un sogno, che si convince di possedere capacità quasi divine e che i perseguitati 'selvaggi' eleggono a loro capo immortale; una concezione totalmente opposta a quella delle autorità che lo considerano dapprima una spia francese e un ciarlatano e poi un pazzo visionario e pericoloso. Su questo nucleo narrativo e di ricerca storica, Atallah imbastisce un lavoro che fa delle immagini il suo punto di forza nella sperimentazione stilistica attraverso la quale riversa in Rey la sua riflessione sulla Storia e sulla sua veridicità, sui personaggi che la Storia la scrivono coi fatti e su quelli che invece lo fanno con i loro giudizi.
Ampliando l’orizzonte interpretativo di Rey, potremmo scorgere anche una metafora col passato recente del Cile, soprattutto nel capitolo del processo, nel quale, non a caso, il regista fa indossare delle grottesche maschere di carta ai suoi personaggi: i ruoli del potere pietrificati nella assurda mimica, maschere attraverso le quali ognuno interpreta il ruolo assegnato dalla Storia.
Come detto all’inizio, Rey non è lavoro facile e neppure perfetto, spesso scandito dalle riflessioni personali del protagonista sul suo ruolo divino e salvifico, ma indubbiamente mostra una idea originale, sostenuta da riflessioni interessanti ed espressa attraverso uno stile personale ed originale: insomma Atallah è capace di gettare un sasso nel mare magnum del mondo cinematografico con uno dei lavori sicuramente più originali degli ultimi tempi, riuscendo nell’impresa di saper traslocare sullo schermo in maniera magari ostica ma compiuta quanto costruito nella sua testa.
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Massimo Volpe
"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".