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Venezia 79, giorno 8: cronache di cinema e non solo

Un resoconto fatto di news, rumors, eventi, volti, chiacchiere, battute, dichiarazioni e ovviamente cinema per spiegarvi bene cosa significa vivere ogni giorno la 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Oggi parliamo di un bel western, di un film a metà e di un film italiano

Siamo nella parte discendente della Mostra, ci avvicinano alla fine. Mancano pochi film all’appello del concorso, Blonde di Andrew Dominik e No bears di Jafar Panahi e in giro per il Lido si vede poca gente, rispetto soprattutto al fine settimana scorso. C’è da dire che ormai è una caratteristica della Mostra di questi ultimi dieci anni perdere molto pubblico e accreditati da martedì in poi: un po’ perché il grosso dei film è stato presentato e di conseguenza anche i nomi più importanti hanno calcato il tappeto rosso per la gioia dei fan; un po’ perché oltre oceano è iniziato il Toronto Film Festival e molta stampa straniera si sposta lì per saggiarne la corposa selezione. 
Per quanto riguarda noi, abbiamo finalmente finito la nostra storia d’amore e di tormenti con il sistema di prenotazione dei biglietti e di questo ne siamo contenti. Comincia a emergere il profilo di Venezia 79 che al momento è medio-basso, mediocre, poco incisivo e significativo. Non fateci la domanda, “Quale film vi è piaciuto di più?” perché davvero non sappiamo rispondervi. Non c’è stato finora, un film particolare che ci ha impressionati, che ci ha fatto sobbalzare sulla sedia per creazione, messaggio, stimoli visivi, ricerca o qualunque altro criterio. Ci sono stati i buoni film e i film non buoni, ma il problema sono i film mediocri, perché lasciano l’amaro in bocca. In ogni caso, confidiamo su questi ultimi giorni per vedere un gran bel film.
Oggi, dunque. Oggi vi parliamo di tre film, ben tre film (una tripletta o un triplete, dipende dalla fede calcistica di ognuno di voi), uno diverso dall’altro: un western, un film inespresso e un film italiano. Da quale partiamo? 

Partiamo dal film a metà, quello inespresso. Calma, non diamo giudizi affrettati. Stiamo parlando di Call of God, l’ultimo film girato e terminato da alcuni suoi amici, di Kim Ki-duk e presentato alla Mostra fuori concorso. Le riprese sono datate estate 2019 in Kirghizistan, poi nel corso del 2020 il nostro Kim se n’è andato per sempre e non ha potuto finire la sua opera. Quindi, quanto ci manca! Ci mancano le sue riflessioni sulle passioni umane mostrate con brutalità e forza; ci manca la sua moralità e la sua critica al perbenismo entro cui i personaggi dei suoi film si muovono; ci manca il suo linguaggio universale che sentenziava il contemporaneo; ci manca il suo cinema fuori genere, fuori criteri, libero e indipendente come era lui. Proprio a confronto di queste direttrici cinematografiche, possiamo definire Call of God un film inespresso, perché seppur fondandosi sulla poetica di Kim Ki-duk, questa appare bloccata. Al centro della vicenda c’è una ragazza che vive un sogno estremamente vivido in cui incontra un ragazzo, affascinante e garbato. Scatta la scintilla e la storia d’amore sembra crescere. Mano a mano che la loro unione si sviluppa, la ragazza scopre la vera natura dell’uomo, poligamo, ancora attaccato alle sue ex fidanzate e schivo nei suoi confronti. Lei, invece, diviene sempre più possessiva, gelosa e ancorata all’uomo, nonostante la sua scarsa considerazione. Si instaura, pertanto, un rapporto morboso di incontro-scontro, di torti e rappacificazioni, di violenze e scuse. Questo è il sogno; nella realtà la ragazza vive un incubo in quanto un misterioso uomo che la chiama al telefono le dice di continuare a dormire per vedere come finisce la storia. Curiosità o paura? Cosa domina la ragazza a tal punto di continuare a dormire? La chiamata di Dio del titolo può essere interpretata sia come la telefonata del misterioso uomo che come il destino che attanaglia i due protagonisti. Un destino che nelle sue caratteristiche di antitesi e scontro riprende le tematiche del regista coreano, ma non le sviscera a sufficienza. Call of God, infatti, per questo appare inespresso, evanescente perché si limita a mostrare, a raccontare la storia, senza andare a fondo delle questione, dei pensieri, delle critiche che la dominano, come i film di Kim ci hanno mostrato. In più poi mettiamoci un bianco e nero che il digitale rende finto, una recitazione non proprio irreprensibile da parte degli attori protagonisti, e quindi la sorte di questo film è passare senza traccia. 

Passiamo al western, e che western! Walter Hill non ha bisogno di troppe parole e definizioni. I suoi film hanno creato un’iconografia ben precisa e hanno definito un periodo della storia passata, pensiamo a I guerrieri della notteJohnny il BelloStrade di fuoco. Nonostante abbia raccontato molto il contesto urbano, il regista americano ha dedicato parte della sua cinematografia al genere western. A Venezia 79, infatti, ha portato Dead for a Dollar, un film western con tutti i crismi. C’è il Texas e il suo confine con il Messico; ci sono i gringos e i messicani, poliziotti e criminali, e i neri; ci sono le città nel deserto e le galere assolate e calde; ci sono poi le pistole, i fucili, i cavalli che nitriscono per la paura, le cadute, i vestiti logori, i saloon e le bottiglie di whisky. Ancora, i personaggi con le loro storie, le vendette, le fughe, le ricerche, gli intrighi, gli omicidi facili, le storie di frontiera, i mercenari, gli uomini senza legge, gli spietati, le inimicizie e le alleanze per comodità e opportunità che forse lasciano spazio anche a delle amicizie. Infine c’è la vastità del deserto e le travi di legno che scricchiolano sotto gli stivali. Brevemente la trama: 1897, Messico. Il celebre cacciatore di taglie Max Borlund (Christoph Waltz) incontra Joe Cribbens (Willem Dafoe) che aveva spedito in prigione alcuni anni prima e si promettono una resa dei conti. Intanto, però, Borlund deve ritrovare e portare a casa Rachel Kidd (Rachel Brosnahan), moglie di un ricco uomo d’affari, rapita e presa in ostaggio da un soldato disertore di colore; per fare ciò si avvale della collaborazione di un sergente dell’esercito Alonzo Poe (Warren Burke). Le apparenze, però, tradiscono una realtà nella coppia ben diversa da quella ufficiale, e quindi una volta che Borlund ha recuperato la donna e consegnato il disertore alle autorità, molti interrogativi si pongono e la verità si imporrà al suono della canna del fucile. 

Dead for a Dollar (il riferimento è al personaggio principale, Borlund, che di mestiere fa il cacciatore di taglie) è questo, non c’è molto altro da dire. Essendo un film di genere western può conquistare chi ama il genere, appassionare e incuriosire chi non lo conosce. C’è una sottile linea narrativa che strizza l’occhio alla contemporaneità in quanto porta alla rivalsa dell’unico personaggio femminile la quale passa da una situazione di sopruso, il suo matrimonio, a un’affermazione sociale. Per il resto, ripetiamo, è un vero e proprio film western. Le uniche pecche sono l’uso del digitale che ammazza la profondità cromatica e fotografica dei campi lunghi e i primissimi piani degli sguardi; poi nella parte centrale il film ha un montaggio molto serrato con micro-scene che si susseguono e questo smorza un bel po’ il crescere della tensione. In ogni caso rimane un film meritevole di visione che per il suo essere rigoroso nel rispetto del genere, poteva ampiamente stare in concorso, ma le Mostre del direttore Barbera ci hanno abituato al confino del cinema di genere al fuori concorso, per prediligere nel concorso, spesso, alle immagini del cinema, più che al cinema stesso.

Infine, parola all’Italia. Cosa accade se un ragazzo di 17 anni viene sorpreso nella notte da un sovrintendente della polizia in possesso di un quantitativo di droga? Solitamente il ragazzo dovrebbe essere portato alla centrale della polizia per la denuncia, ma in realtà il suddetto sovrintendente decide di portarselo in giro per la notte romana. Ecco che prende corpo Notte fantasma, una notte in cui un ragazzo è trascinato in storie ai limiti della follia dai desideri del suo compagno di avventure. Eppure l’uomo non è cattivo, anzi è la notte con il suo buio e i suoi misteri che lo tentano e lo ammaliano. Fulvio Risuleo è un regista giovane, di talento, che ama il cinema vista la sua attività da regista molto prolifica (ha appena 31 anni eppure ha diretto numerosi cortometraggi, Lievito madre è stato presentato al Festival di Cannes 2014 e torna anche l’anno dopo con il corto Varicella che vince come Miglior corto alla Semaine de la Critique. Inoltre è alla terza regia di un lungometraggio, dopo il successo de Il colpo del cane; infine ha diretto la prima web serie interattiva italiana dal titolo Il caso Ziqqurat). Nella sezione Orizzonti Extra porta appunto la sua opera terza Notte fantasma. Detta fuori dai denti, il film è piacevole perché l’interazione tra Edoardo Pesce che interpreta il poliziotto e Yothin Clavenzani, nei panni del giovane Tarek preso da lui in ostaggio, è perfetta. Il primo dimostra tutta la sua ottima bravura come attore interpretando la maschera di folle con i vestiti di un uomo normale e strappa molte risate per il suo modo di dire le cose. È il perno e il protagonista del film. Il secondo, dal canto suo, con il suo sguardo perso e impaurito, l’accento romano, una fisicità massiccia e una tuta in acetato gli si contrappone, suscitando tenerezza e comprensione. Accattivante e sempre avvincente è lo sviluppo narrativo, pieno di guizzi e spunti che portano i due protagonisti a girare per una Roma silenziosa e fatiscente. Il legame, però, tra i due personaggi non è proprio così consolidato, perché quasi fino alla fine non si capisce se Tarek voglia assecondare le follie del poliziotto, che passa dall’essere espressivo a comprensivo improvvisamente, o cercare di allontanarsene. La pellicola, inoltre, quando il personaggio del poliziotto non parla o diviene un semplice componente della scena, perde un bel po’ della sua forza. Anche la grammatica di Risuleo mette alla prova la visione, soprattutto quando cambia stile di ripresa, muove velocemente la macchina e poi si ferma bruscamente per ascoltare i dialoghi tra Tarek e il sovrintendente. In ogni caso, il regista sta crescendo e il film si fa vedere.

Bene, cari lettori, a domani! Oggi sono arrivati al Lido Andrew Dominik e Ana de Armas, rispettivamente regista e interprete di Blonde. Le aspettative solo altissime perché il regista da settimane rilascia dichiarazioni importanti in merito a questo film, dipingendolo quasi come il suo capolavoro e Netflix sta facendo una campagna pubblicitaria impressionante. Domani vedremo e dopo vi diremo. A domani con il giorno nove! Scriveteci sempre a staff.linkinmovies[at]gmail.com.


Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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