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Festival di Cannes 2022, promossi e bocciati: guida ai film

In occasione del 75esimo Festival di Cannes, ecco i giudizi del nostro inviato ai film visionati nelle varie sezioni. Appunti critici di un'avventura dello sguardo lunga 12 giorni

Nonostante le frecce blu che hanno sorvolato il cielo in occasione del seguito di Top Gun, con Tom Cruise, tornato in forma smagliante, più atletico del solito, a rinverdire lo status un po’ annebbiato dell’imperitura star hollywoodiana che non si arrende al tempo e ripropone un eroismo ideologico quasi anacronistico, Cannes, ancora più che il festival, appare ancora sotto tono. La Croisette non si è ancora del tutto ripresa dallo tsunami della pandemia. Quell’impalpabile atmosfera di mondanità, nell’evento culturale e di spettacolo, tra paillettes, starlette, produttori, networking, mercato, cinema autoriale, manca ancora. Una protagonista del marchè ha definito la parte business not depressed, but quiet. Sicuramente non frizzante e stimolante, “perché non ci sono grandi prodotti da vendere e quelli che ci sono o costano troppo o sono già stati venduti alle piattaforme”.
Tutto appare impalpabile. Niente 'sac' per gli accreditati e neppure il catalogo. I biglietti si comprano online, per evitare le file, anche se qui in Francia la mascherina è completamente scomparsa, anche quando al chiuso si riuniscono migliaia di persone. Una Croisette più calma, quindi, meno caotica, maggiormente ordinata, forse a tratti noiosa (in particolare per chi ci viene da almeno due decenni).
I giornalisti sono tornati ad affollare le sale, anche se si nota la mancanza di cinesi e giapponesi (i coreani sono invece molto ben rappresentati, nelle varie sezioni, nel mercato e tra i curiosi), di larghe fette di critica e case di produzioni americani ed, ovviamente, di rappresentanti dell’Europa dell’Est, non unicamente la Russia.
Quello che poteva e doveva essere un grande anniversario, il settantacinquesimo, per forza di cose, si sta delineando come edizione della transizione, del ricollocamento, di una ricerca di identità più definita. Forse alla ricerca di un maggior glamour americano, di un equilibrio irraggiungibile tra cinema d’autore e cinema di genere e spettacolare, senza ripudiare Netflix e le altre piattaforme, arrendendosi di fronte a fatti e trasformazioni non più in essere ma ormai compiute.
Fremaux si ostina a portare in concorso nomi super affidabili, spesso ex vincitori della Palma d’Oro, quest’anno da Mungiu a Ostlund, da Koreeda agli immancabili fratelli Dardenne lasciando sempre meno spazio, nella competizione ufficiale, alla ricerca, alla sorpresa.
Alla fine, nel bilancio finale, conteranno i film, gli eventi, i vincitori, le delusioni e le conferme. Prima che il cinema torni alla sua completa normalità anche in un Paese, che a differenza del nostro, continua ad affollare le sale cinematografiche.

IN CONCORSO


EO, di Jerzy Skolimowski



L’odissea dell’asinello Eo, dagli spettacoli circensi nella provincia polacca, ai macelli, dalle fattorie per la carne da macello fino ad una tenuta nobiliare in Italia. Jerzy Skolimowsky racconta la dolente parabola di un’animale all’interno di contesti opposti, personaggi agli antipodi. Lo fa con approccio confuso, incerto se sposare la mistica della prima parte, in cui Eo si eleva dalle miserie dell’umanità e di chi la abita, ed un taglio più realista e documentarista, quasi da denuncia, quando filma con occhio crudo le tecniche da macello o il traffico illegale di animali. Un po’ road movie, dialoghi ridotti all’osso ma, in compenso, un’onnipresente colonna sonora fastidiosa e ridondante, Eo è sincero nelle intenzioni di fondo, ma poco riuscito nella sua esecuzione, con momenti involontariamente ridicoli, in particolare la parte finale ambientata in Italia, quando Eo viene accolta dal figlio di una signora benestante (Isabelle Huppert) in una tenuta di campagna.

Armageddon Time, di James Gray



Con Armageddon Time, James Gray firma il suo film più intimo e personale, una cronistoria della sua adolescenza a New York all’inizio degli Anni ’80. A bene vedere anche Little Odessa, Two Lovers, Ad Astra erano film che perlustravano il rapporto padre-figlio, le difficili dinamiche famigliari, ma con Armageddon Time, Gray parla direttamente di sé stesso, nella figura dell’adolescente Paul Graff aspirante artista, amante di Kandisnsky, refrattario alle convenzioni sociali che la New York di quel periodo imponeva. Paul riesce a confidarsi solo con il nonno (un magnifico Anthony Hopkins) mentre più difficile è il rapporto con la madre (splendida Anne Hathaway) che avrebbe forse voluto un’altra vita, un altro matrimonio, e ancora di più con il padre, uomo sbrigativo e talvolta violento. Paul deve cambiare scuola perché stringe amicizia con un ragazzo nero ai margini della società e con grande difficoltà riuscirà ad intravedere un futuro per sé. La prima parte è forse troppo 'corretta' con dialoghi quasi artefatti, ma Armageddon Time cresce con il passare dei minuti, riesce ad essere struggente e toccante allo stesso tempo, parla di cose semplici, ordinarie, con grande profondità. Non è un coming of age, non un ritratto famigliare. Le lunghe parti in cui la famiglia ricorda le proprie origini ebree sono un ideale prosecuzione di Two Lovers, così come Paul è, in un certo senso, una versione più ideale del ragazzo di Little Odessa. Sembra davvero difficile che possa essere escluso dal palmares finale.

Frère et soeur, di Arnaud Desplechin



Il difetto peggiore di un regista intellettuale è quello di realizzare un’opera intellettuale, tutta ombelicale, autoreferenziale, che non riesce mai ad essere autentica. E il problema di Frère et soeur di Arnauld Depleschin, che in modo piatto ed asfittico, fino a risultare fastidioso e velleitario nella parte finale descrive i complessi rapporti all’interno di una famiglia numerosa, con lo scrittore Louis che ha sempre detestato la sorella Alice, il suo successo di attrice teatrale, ma che, allo stesso tempo, si è sentito rifiutato dai genitori. Un incidente stradale riunisce fratelli e sorelle a Lille, in un gioco al massacro molto verboso in cui nessuno si salva. Depleschin, dopo i bellissimi Roubaix e Tromperie non trova uno sbocco ai mille sentieri narrativi che la vicenda gli offre. Molti personaggi secondari, come la moglie di Loius, il marito di Alice, rimangono irrisolti, mentre altri, come il fratello gay e lo psichiatra da sempre innamorato di Alice, sfiorano l’involontaria caricatura. Più interessante il rapporto tra Alice e una ragazza rumena che la segue alla fine di ogni suo spettacolo. Anche in questo caso, però, tutto rimane irrisolto.

Triangle of Sadness, di Ruben Östlund



Robert Ostulnd torna a Cannes a cinque anni dalla vittoria con The Square nel rocambolesco e iperbolico Triangle of Sadness. Il film è diviso in tre episodi. Il primo mette in scena l’interazione, spesso isterica, tra i due modelli Carl e Yaya, ossessionati dai social media, dal ruolo di influencer, da tutto ciò che appare futile, da come pagare il conto ad un ristorante, alle varie pose per le fotografie da scegliere per Instagram. I dialoghi, fin da subito mostrano una naturale inclinazione per l’assurdo, il caricaturale. In questo episodio Ostlund ritrae il mondo della moda con efficacia, dal punto di vista interno di due protagonisti. È però nell’incredibile secondo episodio che Ostlund da il meglio di sé. Carl e Yaya partecipano ad una crociera su uno yatch. Sono in compagnia di un magnate russo dei fertilizzanti, due miliardari inglesi ed altri personaggi stravaganti. In un crescendo di situazioni sempre più grottesche, Ostlund unisce Il Dottor Stranamore e la vertigine di Titanic, schetch che sembrano venire dal miglior repertorio dei Monthy Pyton con uno stile, però, inconfondibile. Una tempesta è il pretesto drammaturgico per ribaltare i ruoli. Il capitano interpretato da un irresistibile Woody Harrelson si trincera in una stanza completamente ubriaco con il magnate russo, disquisendo, con citazioni da Marx a Lenin, su capitalismo, comunismo, politica dell’aggressione americana. Attorno a loro il cataclisma, una sorta di Grand Buffe che si unisce alla dialettica ricchi-poveri di Parasite. La pochade di Ostlund necessita di un capitolo finale che arriva su un’isola deserta dove i naufraghi riparano nella speranza che qualcuno venga recuperarli. Il regista svedese opera un ulteriore ribaltamento di ruoli, con Abigail, membro dell’equipaggio, addetta alle pulizie assieme ad altre filippine che assume il comando. Trova il cibo, accende, il fuoco, organizza la sopravvivenza quotidiana del gruppo a contatto con una natura selvaggia ed insidiosa. Anche un pirata che aveva tentato l’arrembaggio alla nave si adegua. Abigail sottrae Carl alla fidanzata, è la leader indiscussa del gruppo. Triangle of sadness non finisce mai di stupire, dalla prima all’ultima inquadratura. Dialoghi strepitosi, ribaltamento degli stereotipi, satira sociale mai gratuita o banale, alcuni personaggi che rimarranno indelebili nella memoria dello spettatore.

R.M.N., di Cristian Mungiu



Transilvania, alta montagna, paesaggi sperduti, un piccolo villaggio, una piccola comunità. Matthias è appena tornato, in cerca di lavoro. Il suo rapporto con la moglie è al capolinea, ed è preoccupato per il figlio Rudi, che non parla, ed è perennemente spaventato, e per Otto, il padre, dalla salute sempre più fragile. Csilla gestisce la fabbrica di bakery che produce il pane ed altri alimenti di prima necessità. Nessuno vuole lavorarci. Salari troppo bassi, offerte più allettanti in Germania o in Ungheria. La fabbrica, anche per poter godere di programmi della EU, assume due ragazzi dello Sri Lanka che faranno innescare una rivolta popolare. R.M.N., quinto lungometraggio di Christian Mungiu, segue due linee parallele: da una parte sviluppa un classico melodramma, con un uomo che desidera fortemente una donna, il più delle volte non ricambiato. Dall’altra il tema dell’integrazione, del razzismo, in una terra già unica di suo, per come ha cercato di far convivere per decenni, minoranze ungheresi e rumeni, rom e tedeschi. Non sempre le due anime del film, che proseguono davvero in parallelo, fino al climax finale, si fondono e risultano compiute. Il travaglio amoroso di Matthias e Csilla manca di qualche tassello importante, in particolare nella psicologia di lei. Mongiu è magistrale nel ritrarre le paure ancestrali del bambino Rudi, che si sente solo, abbandonato rispetto all’esistente. E, invece, nella parte dedicata alla mancata integrazione dei lavoratori dello Sri Lanka che Mungiu si fa spesso retorico, verboso, banale. Sono gli sguardi, i silenzi di Matthias e Rudi a caratterizzare quella parte, è la caotica assemblea del paese a caratterizzare questa. Tutto viene troppo 'detto', esplicitato, come se si dovesse difendere a tutti i costi qualcuno e qualcosa, la tolleranza, il principio di convivenza, che si spiegano da soli. Mungiu cade proprio in questa trappola e il suo film, complesso, pieno di sfumature, rigoroso e bressoniano nella descrizione dei luoghi, rimane una bella incompiuta.

Les Amandiers, di Valeria Bruni Tedeschi



L’intellettualismo e il cerebralismo fini a sé stessi. Una messa in scena sempre ombelicale ed autoreferenziale. Valeria Bruni Tedeschi non riesce a staccarsi da questa idea di cinema ipertrofica, stanca a ripetitiva. Ancora più vuota quando tenta di ritrarre un gruppo di adolescenti che coltivano sogni per il loro futuro. Les Amandiers è ambientato in una scuola teatrale tra gelosie, ansie, timori, velleità di ogni tipo. Dialoghi fiacchi, tutto molto prevedibile, anche la fotografia sgranata per restituire lo zeitgeist degli Anni ’80. A Valeria Bruni Tedeschi non mancano i fondi. Il film è una larga coproduzione italo-francese-tedesca, costumi e design sono ricercati. Manca proprio un’idea di cinema, di messa in scena.

Decision to Leave, di Park Chan-wook



A sei anni da Handmaiden Park Chan-wook torna in concorso nel festival che lo rese celebre nel 2004 grazie al seminale Old Boy. Decison to Leave è una detection. Un commissario indaga su alcuni misteriosi omicidi tutti avvenuti nella sua circoscrizione. Depresso, represso per una relazione mai compiuta con la moglie, il detective si imbatte in una misteriosa donna cinese, affascinante e perturbante. Se ne innamora sempre di più fino al tragico epilogo. Park Chan-wook guarda sicuramente al cinema di Hitchcock (tutta la parte finale in particolare). Tang Wei è una femme fatale uscita dal cinema classico ma che ricorda anche la Catherine Tramell di Basic Istinct di Verhoeven. Manipolatrice, abile player in un jeu de massacre che non lascia spazio all’errore. Se il cineasta coreano è bravissimo nel costruire atmosfere torbide, sinistre, perturbanti, non lo è altrettanto (forse volutamente) nel costruire un plot drammaturgico che spesso si avvita su sé stesso, si ingarbuglia, si attorciglia su sé stesso senza una via d’uscita. È come se Park Chan-wook, al pari del suo protagonista, si fosse innamorato di questa donna, delle sue multiple menzogne, delle sue realtà parallele, disinteressandosi della congruità di quanto descritto. Una sorta di autocompiacimento narrativo ed estetico che crea una sorta di effetto loop e che rende Decison to Leave un film affasciante, con momenti di grande cinema, ma troppo lungo ed eccessivo. Da rivedere in un contesto non festivaliero.

Crimes of the Future, di David Cronenberg



Saul Tenser è un artista performer, Caprice la sua assistente complice, Timlin e Tippet due investigatori del Registro Nazionale degli organi. L’attesissimo nuovo film di David Cronenberg è ambientato in uno spazio e luoghi non ben definiti, un 'oltre' impalpabile, a metà tra l’archeologia industriale e certe atmosfere di inizio Novecento. Il corpo e la carne, il metallo e la mente, il desiderio e il controllo. La mutazione. Crimes of the Future è un po’ la summa di tutto il cinema di Cronenberg (e che sia un film di Cronenberg e non Titane lo si capisce dopo un minuto) da Videodrome a La mosca, fino a eXistenZ. Tenser è una sorta di Dottor Frankestein che si spinge oltre i limiti. Sperimenta, attraversa i limiti imposti dal corpo, in una serie di autopsie che sono anche forme di body art estreme. "Body art is the new sex” si dice ripetutamente nel film e Saul non è un fenomeno nell’old sex quando Timlin si avvicina a lui, affascinata dai suoi esperimenti. Cupo, macabro, perturbante, Crimes of the Future diventa troppo verboso in alcune sue parti, quando tenta di spiegare, attraverso i suoi personaggi, ciò che in realtà è già evidente. E se alcuni personaggi secondari, come la Timlin di Kristen Stewart sono completamente scentrati, il rapporto tra Caprice e Tenser raggiunge momenti di intensità subliminale. L’incompiutezza di varie parti del film è voluta. Cronenberg intende suggerire, aprire squarci negli abissi dell’anima e del corpo. Ci riesce quasi sempre in uno dei suoi film più estremi.

Tori e Lokita, di Luc e Jean-Pierre Dardenne



Lokita viene dal Benin, Tori, dodicenne, dal Cameroon. Si ritrovano in Belgio cercando di sopravvivere tra lavori saltuari in una pizzeria, spaccio di droga di basso cabotaggio, fino a quando Lokita non ottiene il rinnovo del permesso di soggiorno. Verrà confinata in una piantagione abusiva di sostanze stupefacenti, trattata come un animale. Fedeli ai dettati del loro cinema che, però, nel tempo, hanno perso la rabbia e lo smalto originale, i fratelli Dardenne con Tori e Lokita aggiungono un nuovo tassello alla loro ormai lunga filmografia che ha denunciato soprusi, ai danni di immigrati, emarginati, proletari. Qui, in alcuni momenti ritroviamo echi di La promesse, il loro primo folgorante film del 1996 che si focalizzava proprio sul tema dell’immigrazione. Tutto corretto, tutto giusto, dialoghi perfetti, empatia nei confronti dei due personaggi ed avversione nei confronti dei loro aguzzini e di un sistema che non permette vie d’uscita. Manca proprio la rabbia, la freschezza dei primi film. I Dardenne replicano un copione corretto che alla lunga risulta eccessivamente scontato e prevedibile.
 
Stars At Noon, di Claire Denis



Amiamo incondizionatamente il cinema di Claire Denis. È per questo che fa ancora più male vedere un film come Stars at Noon, tratto da un romanzo di Dennis Johnson, con Margaret Qualley. Il primo è un misterioso business man inglese di una compagnia petrolifera, la seconda una giornalista americana conoscitrice della politica e della società di gran parte dei paesi del Centro America. Come il Nicaragua, dove, in piena pandemia, i due vagano come fantasmi alla ricerca di un qualcosa di non ben definito. Una fuga? Il tentativo di acquisire informazioni da passare ad altri? Sopravvivere in una sorta di limbo perpetuo? Claire Denis cerca di far rivivere l’atmosfera dei classici di Graham Greene, ma gira a vuoto. Sembra evidente che il film, con una lavorazione lunga, travagliata, sia un work in progress, un prodotto in fieri. L’incompiutezza e il continuo girare a vuoto dei due protagonisti ne costituisce un po’ il fascino, ma da Clair Denis ci aspettavamo molto di più.

Nostalgia, di Mario Martone



Dopo quarant’anni passati all’estero, tra Libano, Sud Africa ed Egitto, Felice Lasco torna a Napoli, nel Rione Sanità, dove è cresciuto. Ritrova la madre, anziana ed ammalata, alcuni vecchie conoscenze. Vorrebbe, però, incontrare Oreste, con il quale ha condiviso le parti più importanti della sua adolescenza, appena prima di lasciare Napoli con lo zio. Oreste, però, è diventato uno dei camorristi più ricercati della città. Dopo lo splendido Qui rido io, Martone adatta per il grande schermo l’omonimo romanzo di Ermanno Rea. Felice è un osservatore attento della città, dei suoi cambiamenti, delle sue dinamiche. Avvicina il parroco di quartiere e si accorge che la criminalità è diffusa, ovunque. A Martone non interessa, però, alcuna analisi sociale, sociologica. Il suo sguardo antropologico è centrato su un personaggio smarrito, alla ricerca di sé stesso, di un centro, di risposte che non riesce a trovare. La percezione di progressiva perdita è quindi all’origine della nostalgia per un passato inafferrabile che Felice non riesce ad interpretare. Martone torna al suo cinema più cerebrale, quello di L’amore molesto e, soprattutto, L’odore del sangue, con esiti incerti.

Broker, di Hirokazu Kore-eda



Hirokazu Kore-eda sta percorrendo l’itinerario comune a molti cineasti. Conquistata, meritatamente, anzi forse un po’ tardivamente, la fama internazionale, sancita con la vittoria della Palma d’oro nel 2018 con Un affare di famiglia, ha deciso di lavorare all’estero con attori ed attrici celebri. Prima, nel 2019, in Francia con La verità, con Juliette Binoche e Catherine Deneuve, ora in Corea del Sud, a Busan, con attori coreani celebri (anche uno dei protagonisti Parasite, Song Kang-ho) supportato dai soldi della mayor CJ. Il folgorante incipit mostra una giovane donna abbandonare un bambino appena nato davanti ad una chiesa, durante una tempesta. Una pratica piuttosto comune, come si vedrà nel corso del film. Sang-hyun e Dong-soo garantiscono al bambino la sopravvivenza, cercando di venderlo al migliore offerente. Una pratica illegale che viene monitorata dalla polizia, e, in particolare, da un’investigatrice che soffre proprio per la mancanza di figli. Broker perpetua fiaccamente i topoi che hanno reso celebre il cinema di Kore-eda; il rapporto padri-figli, l’infanzia, l’idea di famiglia, più o meno allargata. Fiaccamente perché Broker non solo non aggiunge nulla a ciò che avevamo visto nei precedenti film del maestro giapponese, ma perché si arrocca su alcuni principi anche reazionari, come quello della famiglia a tutti i costi, come soluzione di tutti i conflitti, e perché si trascina narrativamente con inutili orpelli, delineando personaggi alquanto stereotipati. Aspettiamo Kore-eda al prossimo film giapponese.

FUORI CONCORSO

Novembre, di Cédric Jimenez




Prima di vincere il Leone d’oro nel 2021, con L’evenment, Audrey Diwan era conosciuta come moglie e sceneggiatrice dei film di Cédric Jimenez. Senza il suo diretto aiuto, il regista francese torna alla regia con un tesissimo thriller, perfettamente calibrato nei tempi, con personaggi secondari particolarmente azzeccati. Novembre è la cronaca della caccia agli attentatori degli attacchi terroristici a Parigi del novembre 2015, compreso il massacro al Bataclan. Jean Dujardin è un commissario di polizia che tenta di assemblare mille piste investigative spesso contrapposte per arrivare agli attentatori in fuga. Sarà la perseveranza di Ines, sua collega, nel seguire la pista di Samia, giovane magrebina pentita, a permettere al gruppo antiterrorismo della polizia francese di raggiungere l’obbiettivo. Teso come una corda, Novembre è un perfetto meccanismo ad orologeria. Tieni gli spettatori incollati al plot che dosa perfettamente. A Jimenez non interessa capire le motivazioni che hanno portato a quegli atti folli, l’ideologia, il fanatismo. A Jimenez interessa ritrarre un gruppo sotto tensione, una nazione avvolta nel terrore nell’arco di cinque giorni. Anche le multiple locations internazionali, dal folgorante incipit, alle parti ambientate in Marocco, si integrano perfettamente nel corpo principale del film, alternato tra la centrale anti-terrorismo, le strade di Parigi, e alcune incursioni in Belgio. Novembre è un perfetto esempio di cinema di genere che manca molto al cinema italiano ed europeo in generale e che, al contrario, in Francia si produce e si consuma non solo sulle piattaforme. Vedi anche, a tal proposito, il bel Bac Nord a Cannes lo scorso anno.

CANNES PREMIERE


Esterno Notte, di Marco Bellocchio



Dopo l’affresco famigliare forse un po’ ombelicale e autoreferenziale, Marx può aspettare, Bellocchio torna a prendere di petto la Storia, con Esterno Notte, ideale prosecuzione, approfondimento, riflessione di Buongiorno notte del 2003. Questo, come quello, tratta del caso Moro, non solo del suo rapimento, dei cinquantacinque giorni in cui il leader della DC fu prigioniero delle Brigate Rosse, ma anche del suo omicidio, del prima, del dopo e del durante. Esterno notte, uscito in questi giorni nelle sale cinematografiche diviso in due parti di circa due ore e mezza ciascuno (prima dell’approdo in Rai quest’autunno) è stato presentato a Cannes nella sua interezza. Cinque ore nella pancia e nell’anima di un Paese, l’Italia, di cui Bellocchio descrive le mille contraddizioni, riassunte proprio nella figura tormentata di Aldo Moro, politico che amava volare alto, che intendeva la politica come arte della persuasione e della simulazione intellettuale ed umana. Bellocchio fonda magnificamente pubblico e privato, le sofferenze di una famiglia che spera fino all’ultimo, unite alle manovre sinistre e ciniche delle varie correnti della DC dell’epoca. Attento a sottolineare tensioni, caricature, pressioni di personaggi come Andreotti, Cossiga. Il PCI e Berlinguer rimangono un po’ sullo sfondo, come in Buongiorno notte. Ad emergere le tenebre della Storia che allungano i loro tentacoli e riemergono in modo impietoso. Vedremo se la programmazione televisiva riuscirà a restituire la forza dell’operazione che è cinematografica, nel ritmo, nella struttura narrativa e visiva dal primo all’ultimo minuto.

MIDNIGHT SCREENINGS

Hunt, di Lee Jung-jae



Il 26 ottobre del 1979 il presidente coreano Park Chung-hee venne assassinato in circostanze misteriose, facendo così terminare un regime semi-dittatoriale in cui corruzione e continui scandali dominavano la vita sociale e politica. La vicenda ancora irrisolta consente all’attore di Squid Game di dar voce alle più fantasiose teorie complottiste. Hunt inizia nel 1983, ma il suo vorticoso ed impetuoso ritmo, sin dall’incipit ambientato a Washington non permette di focalizzare i dettagli della vicenda. Si susseguono attentati, agguati, false piste, cambi di personalità in una narrazione volutamente poco comprensibile con un ritmo sovraeccitato dalla prima all’ultima inquadratura. Se cercate sfumature e approfondimento Hunt non fa per voi. È un ottovolante da cui non si scende, volutamente caotico, ipercinetico, iperbolico. Action 2.0 nella sua versione più autentica e forse anche più fastidiosa.

UN CERTAIN REGARD

Plan 75, di Chie Hayakawa



L’invecchiamento della popolazione in Giappone è uno dei temi più sentiti e ricorrenti nel cinema nipponico contemporaneo. Recentemente Takahisa Zeze è partito da lì e dal dramma di Fukushima per realizzare lo splendido thriller piscologico In the Wake. La popolazione appare spesso confusa rispetto ai tentativi dello Stato di create dei safetynet che consentano agli anziani di vivere meno traumaticamente il passaggio all’ultima fase della loro vita e, contemporaneamente, cercare una solidarietà intergenerazionale che possa tenere unito il tessuto sociale. Chie Hayakawa, qui al suo esordio, spreca presto tanti spunti interessanti che il plot proponeva. Il suo è un film di una noia mortale, pieno di stereotipi, dialoghi inutili e retorici, e peggio ancora, ricattatori da un punto di vista emotivo. Impressionante la lista di finanziatori che hanno creduto al progetto, da Dubai alla Francia, ad importanti realtà produttive giapponesi. Speriamo non si siano pentiti.

Return to Seoul, di Davy Chou



'Anti-archive', ormai da quasi un decennio, è una delle più belle novità del cinema mondiale. Un gruppo di giovani cineasti di origine cambogiana che, soprattutto grazie a capitali coreani, sono riusciti a dare nuova linfa ad una cinematografia di fatto morta. Negli anni, Dreamland, White Building, Turn Left, Turn Right si sono imposti all’attenzione di pubblico e critica a Berlino, Cannes e Venezia. Questa volta Davy Chou ci porta a Seoul, dove Freddie, scontrosa ragazza francese decide di scoprire le proprie origini coreane in un viaggio a Seoul. Incontra Tena, che gestisce una gesthouse, con la quale fa amicizia. Grazie a lei e all’Istituto Hammond, centro di ricerca teso al ricongiungimento famigliare, Freddie riesce ad incontrare il padre e la madre, ma continua a coltivare uno spirito ribelle, refrattario ad ogni regola. Return to Seoul è un bel ritratto femminile intimista, che descrive un progressivo senso di perdita e mancanza di appartenenza tipico di quanti sono riusciti a vivere un’esistenza cercando di mettere in disparte il proprio passato. È un passato che emerge forte, come nella bellissima parte finale in cui Freddie incontra la madre, tra barriere linguistiche, fratture generazionali, incomprensioni culturali. Lo sguardo di Davy Chou è curioso, sempre alla ricerca di qualche dettaglio, sfumatura, che possa arricchire il complesso ritratto di una ragazza che cerca un centro di gravità (permanente) ma a cui, allo stesso tempo, piace esplorare le vicissitudini di un’esistenza non scontata.

SEMAINE DE LA CRITIQUE

Aftersun, di Charlotte Wells



Sophie contempla i momenti di momenti di gioia condivisa e l’intima nostalgia della vacanza che ha trascorso con il padre vent’anni prima. I ricordi, reali e immaginari, riempiono gli spazi vuoti tra le registrazioni con la sua miniDV, mentre lei cerca di riconciliarsi con il padre che ha e l’uomo che non conosceva. Riuscita opera d’esordio di Charlotte Wells, scozzese che vive negli Stati Uniti. Il soggetto può apparire non originale, ma lo è sicuramente il modo autenticamente sentito in cui la regista ritrae il rapporto tra un padre ed una figlia mai del tutto riconciliati. Sophie si accorge che il padre non è così scontroso e refrattario nel prendere impegni come pensava, anzi, capisce che un passato oscuro ha spesso inciso sulle sue scelte, sul suo carattere. La Wells unisce stili e formati diversi, senza commettere l’errore di molti esordi, quindi senza mettere troppa carne al fuoco e senza voler spiegare elementi che rimangono impalpabili, appena accennati. Un film indie che potrebbe avere un buon futuro.

Next Sohee, di July Jung



July Jung aveva esordito con il convincente A Girl At My Door. A pochi anni di distanza racconta la storia dell’adolescente Sohee, che ottiene il primo lavoro come assistente in un call center. L'impiego si trasforma in un incubo. La ragazza subisce pressioni fortissime sul luogo di lavoro fino a commettere il suicidio. Un detective inizia ad investigare. Rispetto ad A Girl At My Door, Next Sohee è un’opera più tradizionale con al centro temi come il bullismo, la violenza psicologica, la necessità degli adolescenti all’interno di certe società come quella coreana, di performare a tutti i costi, sin dall’età più precoce. La detection si fa sempre più tesa, e il film si trasforma in un raffinato thriller piscologico, pieno di sfumature. Unica pecca, peraltro comune alla gran parte dei film presentati quest’anno nelle varie sezioni del festival, l’eccessiva lunghezza.

QUINZAINE DES REALISATEURS

1976, di Manuela Martelli




Carmen si sta occupando della ristrutturazione della sua casa al mare. Marito, figli e nipoti vanno avanti e indietro da Santiago per le vacanze. Un prete amico di Carmen le chiede di occuparsi di un giovane ragazzo ferito. Improvvisamente la vita di Carmen cambia. Tocca con mano l’atrocità del regime di Pinochet, il dramma dei desaparecidos, la violenza montante. Lei stessa viene seguita, pedinata nei suoi spostamenti, a Santiago e nella località di mare. Teso, ben calibrato, non manicheo, 1976 è prima di tutto, un bel ritratto femminile. Carmen vive il dramma della dittatura politica attraverso le vicende famigliari, da un privato che viene sconvolto. Anche la ricostruzione d’epoca è efficace con un non visto che mostra molto, che restituisce la cecità delle atrocità di quel periodo della storia cilena. Un bell’esordio, questo di Manuela Martelli, che speriamo di vedere distribuito anche in Italia.

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