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Chinese Visual Festival 2015: prima parte

La quinta edizione del Chinese Visual Festival, rassegna dedicata al cinema indipendente di lingua cinese, ha preso il via a Londra: diamo uno sguardo ai lavori presentati nella prima settimana

Il 7 maggio si è aperto a Londra il quinto Chinese Visual Festival, un festival nato dalla passione e perseveranza di James Mudge e che celebra e diffonde il cinema e i registi indipendenti dei paesi di lingua cinese (Cina, Taiwan, Singapore e Hong Kong).
Il festival che si chiuderà il 22 maggio, si divide tra varie sedi, compreso il Chelsea College of Art che ospiterà una sezione di art-video sperimentali.
Il prestigioso King’s College ha accolto nel foyer una folla colorata e modaiola, composta di molti asiatici, accademici e amici del festival per la cerimonia e il drink di apertura.  Una volta brilli a puntino si è passati in sala per la proiezione del film di apertura, il documentario The Last Moose of Aoluguya di Gu Tao, seguito nei giorni seguenti da altre due opere del regista che era presente per rispondere alle domande del pubblico.

Un gigante gentile con un inseparabile cappello alla Indiana Jones, profondamente toccato dal primo Fish & Chips della sua vita (sue parole!), Gu Tao è nato nella Mongolia Interna ai piedi delle montagne del Xingan, figlio di un etnografo e fotografo che ha dedicato la sua vita a documentare le popolazioni del Nord Est della Cina al confine con la Russia. L’approccio di Gu Tao tuttavia è meno distaccato e scientifico di quello del padre e si focalizza sullo scempio e il disagio che la modernizzazione sta portando alle popolazioni e alle antiche culture locali.
The Last Moose of Aoluguya è l’ultimo di una trilogia di documentari sulla popolazione degIi Evenchi, un gruppo etnico nativo della Siberia e Mongolia Interna che ha subito un esodo forzato negli Anni ’50 e in seguito il divieto di cacciare e la confisca delle armi. Il film osserva Weijia, cacciatore Evenchi a cui è stato tolto tutto ciò che costituiva la sua vita e il suo orgoglio. Lo seguiamo mentre cerca di riconciliare la sua vita attuale con i suoi ricordi, sulle tracce di un’alce che non troverà, anch’essa defraudata del suo territorio e del suo status quasi mistico. Weijia anestetizza il dolore con l’alcol e non sembra essere l’unico Evenchi ad aver preso questa strada a senso unico. Amaro e toccante.

The Lost Mountain invece documenta due generazioni di Oroqen, un’altra popolazione della Mongolia Interna. Anche qui la caccia è simbolo della forza e dell’identità degli uomini Oroqen e anche qui è stata vietata e le armi confiscate, ma Gelibao, che alleva cavalli continua ad organizzare sporadiche battute di caccia per commemorare i vecchi tempi. I figli e i loro amici sono arroganti e competitivi come lo erano i loro padri un tempo, ma si sfogano in modi diversi e più tecnologici, i nuovi cavalli sono moto da cross e i nuovi giochi sono smartphones e videocamere. In un momento molto tenero Gelibao si chiede quale sia la differenza tra moto e cavalli e la sua risposta è che le moto non parlano. Anche qui c’è un’alce che non c’è, lo spirito della montagna sembra essere una metafora della forza maschia, del coraggio e dell’indipendenza di queste popolazioni. E come quest’ultime non c’è più.
Una cosa comune a tutti i documentari di Gu Tao mi è sembrata la quasi totale mancanza di donne. È vero che l’identità di queste popolazioni è fortemente legata alla caccia, ma sarebbe stato interessante uno sguardo all’impatto che tutto ciò ha avuto sulla comunità femminile. Certo è che se i cacciatori piangono di certo le mogli non ridono. Oltre al disagio di un esodo forzato si ritrovano con mariti e figli depressi, imbolsiti e quasi sempre ubriachi!

Le donne invece sembrano essere la forza quieta del documentario Cotton, vincitore del premio della critica del CVF e passato lunedì 11 maggio. Il regista Zhou Hao, una delle figure più importanti del Chinese Independent Documentary Movement, ha portato a casa per Cotton il Golden Horse Award al Festival di Taipei.
Stilisticamente più raffinato e rifinito dei veraci documentari di Gu Tao, Cotton osserva in maniera apparentemente distaccata e senza commenti la filiera del cotone saltellando avanti e indietro tra i personaggi protagonisti delle diverse fasi del processo. Grande umanità e simpatia escono dallo schermo, eppure Cotton è una trappola, una trappola gentile. Ci porta lentamente ed inesorabilmente ad affezionarci alle donne e agli uomini che osserviamo, ma poi improvvisamente colpisce e ci fa rendere conto del costo umano che questo processo richiede. Il film non mostra mai dettagli del prodotto finito e noi ci sentiamo salvi ed innocenti al di qua della lente, ma quando verso la fine si inquadra l’etichetta di una nota marca allora improvvisamente realizziamo che quei jeans sono destinati a noi, proprio noi e che anche noi siamo parte di questo tritacarne. Commovente senza mai essere lacrimoso, questo è un documentario che resta dentro.

Da segnalare anche il divertente corto cinese The Hammer and Sickle Are Sleeping di Geng Jun. Ambientato in un villaggio rurale del nord della Cina circondato da foreste innevate, è il racconto di tre personaggi che vivono di espedienti e ad un certo punto decidono di unire le forze nella speranza di condividere qualche buona idea per derubare i passanti e di sembrare più temibili. Naturalmente non andrà così e anzi la goffaggine dei tre si triplicherà creando una serie di situazioni comiche e assurde scandite da un ottimo tempismo comico. Non si può però che simpatizzare con questi Soliti Ignoti cinesi motivati da povertà e disagio e il regista sarcasticamente strizza l’occhio alla Falce e Martello del titolo.
E con gli occhi pieni di neve, campi di cotone e alci fantasma saluto la prima settimana di questo festival che è una vera perla rara. Le aspettative per la seconda settimana sono già alte.


Video

Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

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