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Festival di Roma 2012: il meglio e il peggio

Una immagine del Red Carpet del Festival del Film di Roma 2012Un personalissimo resoconto dagli inviati di LinkinMovies.it sulla settima edizione del Festival del Film di Roma: tutte le (poche) luci e le (tante) ombre di una rassegna che in nove giorni ha offerto alcuni sprazzi di buon cinema ma che si è conclusa nel peggiore dei modi

No, il dibattito no! E venne il novembre 2012, settima edizione, e infine festival filmico romano fu anche per il sottoscritto, che dopo una fugace apparizione nel 2009, si era dovuto tenere lontano dalla capitale e dai piccoli velenucci che da quando è nata inquinano (pre, durante e post, fino al pre dell'anno successivo) la rassegna che ora, dopo il periodo della Festa del Cinema, ha preso nome Festival del Film. Ora, inutile negare l'evidenza che questo ritorno personale ha molto a che fare con l'approdo a Roma di Marco Muller (e la sua troupe di selezionatori del cinema asiatico di qualità, provata e riprovata negli anni ruggenti della sua Mostra del Cinema), e un po' alla curiosità per alcune presenze annunciate in cartello (Fedorchenko, due film cinesi a sorpresa, Rivero, Khudojnazarov, in primis).

Ebbene, della Festa del Cinema ricordavo la bellezza della location al'Auditorium, la buona qualità audiovisiva delle proiezioni e il gusto per il jet set del pubblico (cinefilo e non), uguale eppur diverso da quello che si palpa in altri festival... ma non ricordavo la più che discreta qualità dei servizi, anche di ristorazione, e i tutto sommato ragionevoli prezzi di un pasto caldo come si deve o quasi (cosa che a Venezia ci si scorda per una decina di giorni, a meno di non disporre di un budget da star). Anche il caffè viaggia tra il discreto e il buono.

Sotto il par il pubblico un po' popular-snobbino che vorrebbe le proiezioni a 5 Euro, magari giusto per giocarsi gli euro in avanzo al Gratta e Vinci – “Cari loro, è pur sempre cultura cinematografica... andreste a vedere un concerto per 3 Euro? E se sì, che qualità vi aspettereste?”... vien voglia di domandare – e i disguidi di organizzazione (code fuori sala gestite un po' con approssimazione, cerimonie di premiazione chiuse e riaperte, indicazioni stradali fuorvianti), ma vabbé quelli ci stanno sempre e fanno parte del gioco tutto italico rispecchiato nel 'facciamoci del male' di un gran Romano come Nanni Moretti. E allora la smetto qui, tralascio di palar dei film visti e delle discussioni suscitate da questi, dai loro autori, dalle di loro conferenze stampa e dalle opinioni ingenerate da tutto ciò, perché è giusto concludere, dopo qualche giorno di film visti a ripetizione che: “No, il dibattito no!”. Moretti docet (e chissà che ne pensa del festival romano), la casalinga di Voghera e il pastore abruzzese ringraziano. (Paolo Villa)

Sylvester StalloneL’Italia di Roma. Quante novità quest’anno al festival capitolino. Dalla scenografia del red carpet, austera e sobria, interrotta solo dal ‘Buddha ridente’, alla programmazione dei nove giorni di cinema. È stata, comunque, la direzione Muller il cambiamento più significativo. Cinema d’autore, tanti registi asiatici, grandi ospiti annunciati, da Quentin Tarantino a Bill Murray. Sono stati proposti lavori più facilmente fruibili da un pubblico di cinefili che dall’abituale platea che ha frequentato, nelle edizioni passate, le poltrone dell’Auditorium.  Eppure. Eppure qualcosa è andato storto. Sì, perché nonostante i capolavori non siano stati il leit motiv dell’appuntamento annuale con il cinema, è pur vero che è stato faticoso interpretare le scelte della giuria durante la cerimonia di premiazione. Con Larry Clark che si aggiudica il Marc’Aurelio d’Oro è difficile trovare una linea di continuità con quello spessore intellettualoide che il festival ha costantemente ostentato. Con Paolo Franchi che vince per la miglior regia, invece, avranno pensato di avere omaggiato il ‘cinema d’autore’. Sì, ma, che vuol dire ‘d’autore’?  Forse significa utilizzare le macchina da presa in modo ostinatamente originale, che poi si traduce in stucchevole? O tentare di scuotere gli animi con ripetute scene di sesso esplicito, per lo più fine a se stesse? Forse. Forse significa questo per chi ha l’ingrato compito di emettere il verdetto finale.
Non soltanto la critica, anche il pubblico si è ritrovato con le fauci allargate in ampi sbadigli e il sopracciglio crucciato, per via dei troppi mancati arrivi delle star annunciate e mai accolte. Sarà il risultato di un rodaggio andato male? Sarà un’organizzazione sulla falsariga dell’andamento italiano, fatto di professori pomposi affannati nell’esibire un impegno culturale, che si rivelano, poi, carichi di pregiudizi? Incantatori di masse che promettono imminenti tavole bandite e poi lasciano solo briciole indurite e vendute a caro prezzo. Nella Capitale è stata presentata un’Italia cui siamo abituati, che si finge esterofila ma che, a conti fatti, sfodera un patriottismo senza cognizione di causa. Non sarebbe stato meglio lasciare da parte certi tromboni nostrani e dar retta a chi, senza mascherate paternali da borghesuccio, il cinema made in Italy lo sa fare davvero? Per le risposte non ci hanno lasciato tempo, questo Festival mette tanti punti interrogativi e, troppo spesso, saluta un pubblico che fa spallucce. (Jlenia Currò)

Larry Clark con il massimo riconoscimento assegnato dal Festival di RomaPoche luci e tante ombre. Anche la pioggia ha voluto far sentire la sua presenza alla fine dell'ultimo giorno del Festival del Film di Roma, quasi a voler partecipare alla mestizia che la cerimonia di chiusura ha ingenerato: si torna a casa increduli, imbufaliti e pure bagnati.
Non si può non iniziare dal famigerato ultimo giorno per poter giudicare un festival che fino ad allora aveva vissuto di luci e ombre, cui la raccapricciante decisione della giuria ha inevitabilmente dato il colpo di grazia definitivo riguardo alla valutazione complessiva: il verdetto di Jeff Nichols e compagni di merenda è quanto di più ingiusto e scandaloso si sia visto in un festival degno di tal nome. Ma ci torneremo su.

Ci è piaciuto (più o meno) :
- il deciso cambio di marcia nel festival rispetto agli anni precedenti riguardo alla scelta dei lavori: la mano di Muller si è vista, anche se il giudizio rimane almeno in parte sospeso perché di fatto ha avuto poco tempo per organizzare la rassegna causa le tradizionali e squallide beghe da condominio che hanno accompagnato la sua nomina.
- la location, ormai tradizionale, è di quelle degne di una città civile; d'altronde il Parco della Musica ideato da Renzo Piano è una delle poche opere degne di nota costruite a Roma negli ultimi decenni.
- la sala stampa: finalmente degna di tal nome, anche se, soprattutto i primi giorni, la rete informatica funzionava come un modem a 56KB.
- la professionalità, la cordialità e la disponibilità delle delegazioni che hanno accompagnato i film orientali; uno star system lontano anni luce da quello occidentale, a misura d'uomo, in cui c'è ancora spazio per il rapporto umano, all'insegna dell'eleganza e della compostezza, anche da parte dei numerosi fans, soprattutto cinesi, che hanno popolato il red carpet la sera della proiezione di 1942 di Feng Xiaogang; nessuna posa da santoni cinematografici, nessun abbigliamento stile mignottesco da parte delle attrici, nessun divismo sfrenato, registi (Takashi Miike) che fotografano da un angolo della sala della Meeting press i propri attori intenti nelle interviste. Una lezione di stile.
- la presenza di numerosi inviati di testate estere, a dimostrazione che qualcuno in questo festival ci credeva.

Red carpet Festival di Roma 2012Non ci è piaciuto:
- l'altra faccia della medaglia dell'impronta mulleriana: troppa autorialità, troppi film scarsi seppur d'autore con conseguenti ripetute diaspore dalla sala di proiezione per la stampa; l'aver inseguito film in anteprima mondiale per un festival in questo periodo dell'anno ha fatto sì che, inevitabilmente, sulla piazza restassero gli scarti di Cannes, Venezia e Toronto. Probabilmente potendo lavorare per tutti i 12 mesi questo problema si risolverà.
- la solita imbarazzante parata di personaggi di contorno del panorama cinematografico italiano animata da un esibizionismo senza limiti, quasi non bastasse la ben poca qualificata presenza di aspiranti attori che si credono star, registi che si sentono Bergman, starlet in cerca di gloria in rigorosi abiti mignotteschi (queste sì…). Probabilmente è un prezzo da dover pagare ad uno star system italico che vive sul nulla, spacciandolo per oro.
- la giuria: Jeff Nichols è brillante e capace uomo di cinema, quindi ancora più incomprensibile appare la scelta dei premi; sta di fatto che la credibilità del Festival è stata fortemente minata, ancor più ( e non poteva essere altrimenti nel Paese della dietrologia) dal momento che qualche sussurro racconta di pressioni subite dai membri della giuria stessa.
- i premi: se avessero voluto fare di peggio non ci sarebbero riusciti nell'assegnazione dei riconoscimenti, al punto che la scelta del pubblico, per una volta, si è dimostrata ben più saggia, premiando almeno un film (The Motel Life) che una ragione di esistere almeno ce l'ha. Cercare di convincere che il cinema italiano è vivo e vegeto premiando una aberrazione cinematografica come E la chiamano estate e un lavoro ovvio, populista e qualunquista quale Alì ha gli occhi azzurri (tipico lavoro 'all'amatriciana'), è impresa ridicola: non se ne accorgerà nessuno e a Cannes e a Berlino continueranno a premiare i fratelli Taviani e i Garrone.
- la cerimonia finale: Muller ingessato (si sarà reso conto almeno lui?), fiera dell'ipocrisia, parole come arte, sensualità e coraggio sparate al vento, spocchia dei vincitori al cui confronto quella di Nanni Moretti sembra simpatia irrefrenabile, fischi ed ululati dei pochi giornalisti infiltrati nella Sala Sinopoli (gli altri a seguire la diretta, in ritardo, nella Sala Petrassi), due personaggi quali il regista Paolo Franchi e l'attrice Isabella Ferrari intenti ad autoincensarsi e a ritagliarsi un ruolo da grande maestro d'arte lui e di aspirante oggetto di desiderio sessuale maturo lei (pensa tu…), Larry Clark che blatera e del quale abbiamo capito come mai la bacheca dei premi è desolatamente vuota, persino un improbabile e goffo tentativo di Claudio Giovannesi di arringare il popolo con un discorso politico-sociale sugli immigrati con tanto di proposta legislativa. E' tutto? Beh, per la fiera degli orrori forse sì; rimane da capire (o forse si capisce fin troppo bene) perché il film di Franchi abbia trovato qualche sporadico estimatore tra quel ceto borghesotto medio annoiato che forse vede nel suo lavoro (!) il concretizzarsi, sulla pellicola, delle proprie fantasie sessuali, che però si guarda bene dal mettere in pratica.

Per finire, visto che hanno potuto far parte della giuria quei sette individui che hanno partorito tale scempio, mi sento in diritto di assegnare i miei personali premi.
Miglior film: Mai Morire di Enrique Rivero.
Miglior regia: Johnnie To per Drug War.
Premio Speciale: Celestial Wives of Meadow Mari di Aleksei Fedorchenko.
Miglior attore: Charlie Sheen per A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III.
Miglior attrice: Margarita Saldana per Mai Morire.

Per quest'anno è tutto, voltiamo pagina e pensiamo al prossimo! (Massimo Volpe)

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