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L'atto di vedere di Wim Wenders

La parola a Wim Wenders. Meltemi ripubblica un libro fondamentale per chi ama il regista tedesco e consigliato a chiunque voglia capire il cinema e il concetto di osservazione che lo sottende. L’atto di vedere, infatti, parla di visioni, di storie, di idee del cinema e delle trasformazioni delle immagini in movimento

Definire Wim Wenders un regista è alquanto riduttivo. Il suo lavoro dietro la macchina da presa è solo l’espressione artistica più adatta, senza dimenticarci il profilo di Wenders fotografo da considerasi impareggiabile come quello da regista, ma dietro ad essa, dietro al suo senso dell’inquadratura, alla sua capacità di definire porzioni di spazio a tratti infinite, esiste una riflessione, un’idea profonda, una maturazione di pensiero che conduce, in ultima istanza, il caro Wenders a dirigere un film. Pensiero, quindi, e anche osservazione, sguardo, attenzione a ciò che lo circonda, al mondo nelle sue continue evoluzioni e alla vita dell’uomo. Non appare, dunque, inopportuno il titolo scelto per il suo libro del 1992 che in originale recita The Act of Seeing. Teste and Gespräche, pubblicato nella prima edizione da Verlag der Autoren, per poi giungere in Italia nel 2002 grazie a Ubulibri e ora rivivere con Meltemi con il titolo L’atto di vedere, numero 46 della collana Biblioteca/Estetica e Culture visuali.

La chiave di lettura. La traduzione è di Roberto Menin, la prefazione di Chiara Simonigh. Il libro consta di 270 pagine così suddivise: la prefazione, intitolata Guardare, vedere, forse osservare. Win Wenders e l’atto trasformativo, e poi sette capitoli intitolati L’atto di vedere I, II, III, ecc. in cui sono raccolti scritti, interviste, racconti del regista tedesco in un periodo dal 1982 al 1992. La prefazione della prof.ssa Simonigh dà la chiave di lettura al libro trattando del concetto di immagine, dell’immagine vista e osservata. Il libro, sostiene la docente, "è forse destinato a rimanere tra i suoi più espliciti e forti incitamenti (verbali) a muovere il nostro sguardo oltre quell’incoscienza percettiva, le cui conseguenze sociali, culturali e politiche sono state nel frattempo amplificate dall’aumento esponenziale della pratiche iconiche nel mondo" (p. 11). Insomma il libro di Wenders si costituisce come una guida all’atto di vedere non solo quanto appare, ma anche quanto è percepito dall’occhio e dalla macchina da presa che il regista spiega intrecciando percezioni, riflessioni, creatività nel lasso di tempo considerato. Simonigh prosegue, infatti, che l’uomo di oggi fa un uso improprio degli occhi e Wenders nel libro spiega cosa vedere, cosa osservare, e dove appoggiare lo sguardo nella transizione dal vedere all’osservare. 

La costruzione del vedere. Si apre dunque L’atto del vedere. La quasi totalità degli scritti raccolti ruota attorno al film di Wenders Fino alla fine del mondo. Il regista ne racconta la genesi, la storia e attraverso le interviste proposte sono sviscerati i contenuti, la costruzione del film, le finalità e l’idea di vedere su cui si basa questo film di genere fantascientifico. Nella realtà futura in cui è ambientato Wenders voleva "in un film di fantascienza sul futuro, riflettere del nostro rapporto con le immagini, e potermi prendere la libertà di delineare il futuro del vedere" (p.42). 
Quando il libro parla di cinema, il discorso slitta sempre verso l’opinione di Wenders su di esso, sulla critica, sui giovani cineasti tedeschi e su quelli della sua generazione, definita senza padri a causa della cancellazione di quella generazione che ha contraddistinto la Germania nazista. In questa visuale, appare interessante e ricca di riflessioni la conversazione del regista con Taja Gut del 1988 in cui Wenders chiarisce il ruolo che ha Fino alla fine del mondo, ossia la strada che a lui è servita per giungere alla chiarezza, per imparare, per capire e talvolta per rifiutare qualcosa. L’intervista, inoltre, tocca anche argomenti come la natura illusoria del cinema, il concetto di manipolazione, di unità del cinema nell’atto soprattutto creativo, e del piacere di vedere indotto dai film di Wenders. Lungo i capitoli si susseguono le interviste in cui si legge che uno dei registi preferiti di Wenders è Yasujiro Ozu e come il lavoro di Robert Frank l’abbia notevolmente influenzato; si fanno riferimenti pittorici alle immagini cinematografiche dei suoi film (ricordando che il regista è anche un pittore); si ribadisce il pensiero per cui le storie sono manipolazione e le immagini, pertanto, sono, a livello poco evidente, cariche di verità; si parla di città, di metropoli, di come le intende Wenders, soprattutto Tokyo; si parla di ‘68, di sogni, di musica e di tecniche video, di identità. Le interviste, continuando, sono intervallate da scritti, brevi o lunghi del regista sull’alta definizione, sulla cultura del video, sulla televisione; sono inoltre riportati, all’inizio del capitolo III alcuni appunti di viaggio di Wenders sulla moda e sulle città, mentre successivamente si parla ancora di realtà urbane, di architettura e di paesaggi urbani e come è necessario osservarli e interpretarli. Un considerevole spazio è dedicato alla storia recente di Berlino (il regista perse la caduta del Muro proprio perché in Australia a girare Fino alla fine del mondo) e della Germania, riguardo a cui afferma: "Quando la nomino mi sembra di parlare a vanvera, come se fosse un’entità che non esiste più; o che non è ancora stata ripristinata. Un vuoto, forse non per voi, ma sicuramente per me" (P. 201). Il suo giudizio a riguardo del suo Paese, poi si allarga e si articola e, all’epoca della redazione del libro, non rimane ottimista. Gli amanti di cinema (e non solo) sono conquistati dal dialogo tra Wenders e Jean-Luc Godard in cui si confrontano le idee di cinema, l’idea di storia, di sonoro, di linguaggio del montaggio e fa sorridere un botta e risposta in cui il cineasta tedesco afferma che lavorare a Hollywood per lui è stato difficile. Godard risponde:"per me sarebbe impossibile" (p. 215). Nel libro trova anche spazio il ricordo del regista tedesco di Rainer Werner Fassbinder che conduce alla parte conclusiva del libro. Qui tre interviste definisco come Wenders organizza le riprese, come intende la sceneggiatura e sulle convergenze tra scrittura e sceneggiatura e come questa fase per lo stesso regista sia un passaggio infernale.

Che cosa rappresenta questo libro. L’atto di vedere è un libro ricco, colmo, pieno, fagocitante; trascina il lettore nella testa di Wenders o meglio lui stesso dischiude a chi legge i suoi processi logici e creativi che lo portano a essere definito un artista poliedrico che maneggia la macchina da presa per sviluppare un’idea e un’opinione su tutto ciò che riguarda la sua contemporaneità e il futuro. Il regista tedesco, infatti, non getta mai una risposta su tutti gli argomenti di discussione proposti, anzi prima risponde e poi approfondisce. Questo intreccio di idee appare solo a una lettura superficiale complesso, per invece dipanarsi e spiegarsi nel corso dei capitoli attraverso un filo logico che prende e recupera, rinnova e approfondisce le idee del regista. Si parte dall’idea di vedere, dal significa intimo, ontologico, morale anche del vedere per ampliarsi a tutto quanto lo tocca. Il libro, in questo modo, ha ritmo, composto di pause e approfondimenti, che dalla prefazione porta alla fine senza interruzioni. È comprensibile come si articola l’idea di vedere di Wenders? Sì. Il libro è esaustivo nella definizione del profilo del regista? Sì. Il libro, concludendo, così come è articolato, si indirizza verso chiunque voglia capire un po’ meglio il cinema, permettendo che uno dei suoi autori più intelligenti, uno dei maggiori indagatori della sua essenza e dell’arte stessa, si esprima.

Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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