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La gente che sta bene - Recensione

La crisi dal punto di vista dei ricchi, in una commedia dai toni più drammatici che umoristici, interessante per la presenza di attori tra i più apprezzati in Italia (Claudio Bisio, Margherita Buy e Diego Abatantuono), ma lenta e prevedibile

La sottile ironia che fa da sfondo alla pellicola, la si percepisce già nel titolo: La gente che sta bene, film del regista Francesco Patierno, racconta la storia di persone che non sono affatto felici, a dispetto della loro posizione sociale e degli importanti successi lavorativi.
Interpretato da Claudio Bisio, Margherita Buy e Diego Abatantuono, il film racconta la crisi dal punto di vista dei ricchi, di coloro che sicuramente non devono fare i conti a fine mese per pagare le bollette, ma hanno a che fare con spettri ben più spaventosi.
Umberto Dorloni (Bisio) è un avvocato di successo, che si sente ormai ‘arrivato’ e per questo non guarda più in faccia nessuno, neppure sua moglie Carla (Buy), che in realtà è una professionista molto più in gamba di lui, ma preferisce accantonare la carriera per dedicarsi ai due figli. L’incontro tra Dorloni e lo spregevole quanto potente Patrizio Azzesi (Abatantuono in versione cattivissima) segnerà una svolta importante nelle vite di tutti.
Il film riprende il romanzo omonimo di Federico Baccomo e ha un chiaro intento ironico dai toni noir: purtroppo il ritmo è piuttosto lento e spesso le situazioni sono troppo scontate e banali. Si ha l’impressione di riuscire a intuire sempre come andrà a finire una scena e lo stesso finale non lascia troppo di stucco. A parte l’indiscusso talento di attori come la Buy e Abatantuono, c’è poco da ricordare quando in sala si riaccendono (finalmente!) le luci. In effetti anche chiamarla commedia risulta faticoso, poiché non si tratta tanto di un film dal riso amaro, ma di un dramma che solamente a tratti strappa un sorriso.

Probabilmente senza il forzato happy ending avremmo potuto parlare quantomeno di coerenza da parte di regista e sceneggiatori. E invece no: Patierno preferisce farci vedere per oltre un’ora e mezza le tinte più cupe dell’animo umano per poi regalarci un finale ‘a tarallucci e vino’, che stride con i pesanti toni utilizzati sin dalla prima scena.

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