Oldboy - Recensione
- Scritto da Massimo Volpe
- Pubblicato in Film in sala
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Quando si è di fronte ad un remake cinematografico due sono le condizioni irrinunciabili alle quali si deve sottostare prima della visione: premere il tasto 'delete' in quella zona del cervello in cui albergano i ricordi del film originale ed evitare di porsi la domanda "Perchè si fa un remake?". Tutto ciò vale ancora di più quando si parla di Oldboy, lavoro del coreano Park Chan-wook che risulta uno dei film più morbosamente amati ed ammirati in questo primo scorcio di nuovo millennio.
La pellicola di Spike Lee si colloca a metà strada tra l’omaggio (parole del regista) e la rilettura del testo originale (un manga giapponese) con sguardo americano.
Joe è un tipaccio, ubriacone, separato dalla moglie e dalla figlioletta che lavora nell’ambiente pubblicitario. Cerca di condurre gli affari a modo suo con risultati penosi, e una sera mentre si aggira ubriaco viene rapito silenziosamente. Venti anni di detenzione alienante, in una stanza con solo un televisore e fogli di carta su cui scrivere, nutrito con pessimi ravioli fritti, a rimuginare sul perché si trova lì fino all’abbrutimento completo. Un giorno però all’improvviso ritrova la sua libertà, deposto in un baule al centro di un vasto campo. Il ritorno alla vita apparentemente libera sarà però nutrito solo dalla sete di vendetta che lo attanaglia ancora di più. La nebbia che avvolge la sua mente si dirada poco alla volta quando tra colpi di fortuna, una giovane donna che lo aiuta e uno strano personaggio misterioso, frammenti di un passato lontano vengono alla luce ed offrono una possibile spiegazione alla sua ventennale detenzione.
Il tema della vendetta incrociata e della redenzione attraverso l’espiazione fungono da traccia per tutto il racconto, creando probabilmente una sovrastruttura narrativa che non giova al film: troppo inseguita la razionalità della storia quando invece avrebbe giovato una minore rigidezza del racconto in favore di un'analisi più profonda dei vari personaggi e dei loro tormenti, troppo spiegato tutto nella sua linearità (soprattutto la storia della figlia). Spesso si cerca una morale nascosta, soprattutto in un finale addirittura moraleggiante. Manca quella visceralità che tematiche simili dovrebbero sempre avere, col risultato che il film finisce per apparire come un thriller, anche discretamente riuscito, ma privo di quella filosofica dissertazione sulla libertà e sulla vendetta, sul perdono e sulla espiazione.
La versione di Spike Lee di Oldboy nel complesso comunque regge, sa regalare una tensione continua a livelli accettabili e regala anche bei momenti; d’altra parte però dimostra anche una certa fragilità proprio nella sua struttura e anche la scelta di alcuni personaggi di contorno vicini alla macchietta appare discutibile. La scelta di Josh Brolin come attore protagonista tutto sommato risulta azzeccata, soprattutto in funzione del personaggio come è stato disegnato, in questo molto americano.
Piccolo consiglio: non si (ri)veda il lavoro di Park prima di questo, se non altro per poter godere appieno della frenetica voglia di rivederlo che sorge appena finito l’Oldboy americano.